sabato 1 febbraio 2014
Per aggirare il divieto federale, la provincia francofona ha presentato una misura di «riforma della professione medica».
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«Aiutare una persona a morire», recita il codice penale federale, è un crimine in Canada. Punibile con la prigione. Ma nel giro di un paio di settimane il Parlamento del Quebec potrebbe legalizzare la morte assistita, permettendo ai malati terminali della provincia francofona canadese di chiedere a un medico un’iniezione letale.L’accelerazione del Quebec non è la prima sfida delle province autonome alla legislazione federale di Ottawa. La Corte Suprema del British Columbia, lo scorso giugno, ha dichiarato incostituzionale punire il suicidio assistito. E in Ontario l’appello per il «diritto a farsi uccidere» lanciato sul letto di morte da un noto luminare, Donald Law, ha avviato un movimento per la legalizzazione dell’eutanasia. La parola fine spetterà quasi certamente alla Corte suprema canadese, che dopo 21 anni di silenzio, ha appena accettato di pronunciarsi sul suicidio assistito, probabilmente il prossimo autunno. Ma il Quebec non intende aspettare. Sebbene l’elettorato resti diviso, una commissione parlamentare, giovedì, scorso ha approvato il Bill 52 sul “sostegno alla morte”, definendola, per proteggere i dottori del Quebec da problemi con la giustizia federale, non una modifica al codice penale, bensì una riforma della pratica della professione medica, che rientra nelle competenze provinciali. Manca solo il voto finale dell’Assemblea, atteso entro questo mese. Gli equilibrismi sintattici non eliminano però le contraddizioni legali e tantomeno i problemi etici, sollevati di frequente dai gruppi di avvocati e di medici che si oppongono alla misura. I membri dell’associazione “Physicians for Social Justice”, ad esempio, non si stancano di ripetere che il disegno di legge è un tentativo di distogliere l’attenzione dei canadesi dai tagli recenti negli investimenti statali nelle cure palliative. Altri, come Irene Ogrizek, docente universitaria di Montréal, figlia di una malata terminale e autrice di un blog contro il Bill 52, vedono la misura come la «suprema illusione che i controlli funzioneranno, che ospedali sovraffollati e medici oberati agiranno sempre con trasparenza e in buona fede, che i familiari saranno sempre ben informati e vigili contro gli abusi, che gli stessi pazienti saranno in grado di prendere decisioni razionali e consapevoli».I sondaggi fotografano, intanto, un’opinione pubblica incerta. Quando si chiede agli elettori del Quebec se in principio siano favorevoli a permettere a chi soffre in modo «insopportabile» di mettere fine alla propria vita, il 72 per cento approva l’eutanasia. Ma solo il 35 sostiene la legge 52 così com’è scritta, mentre la maggioranza teme che apra la porta ad abusi. La misura, infatti, non specifica linee guida oggettive per determinare le condizioni di un paziente o per verificare l’autenticità della sua volontà. Il testo prevede solo che una persona, per poter chiedere la morte, debba essere «di maggiore età e in grado di dare il suo consenso», abbia ricevuto da due medici la diagnosi «di una malattia grave e incurabile in declino irreversibile» e provi dolore «fisico o psicologico che non può essere alleviato in modo tollerabile». Sono termini che disturbano Manuel Borod, capo del dipartimento di medicina palliativa dell’Università McGill di Montreal. Pur non essendosi schierato con alcun gruppo, pro o contro la legge, il 62enne medico non sa che cosa farà se il Bill 52 entrerà in vigore. In 30 anni, al Montréal General Hospital ha aiutato più di tremila persone a «concludere la loro vita in modo dignitoso», e senza sentire mai il bisogno di far ricorso a un’iniezione letale. «Quando parla di diritto di morire, la gente dimentica che oggi un paziente ha già il diritto di rifiutare qualsiasi trattamento medico – spiega – e di richiedere solo farmaci contro il dolore. Spetta a noi medici spiegare quali opzioni un paziente ha a sua disposizione, e non fomentare i suoi timori». Secondo Borod è proprio la paura, infatti, la motivazione principale di chi chiede di accelerare la propria morte. «Paura del dolore, paura di non essere più in controllo del proprio corpo, paura di perdere la propria identità umana. Ma legalizzare l’eutanasia renderebbe la fine della vita ancora più spaventosa. Molti malati terminali potrebbero sentire quasi come un dovere richiedere la morte».In un altro dipartimento dell’università di McGill, quello per la Medicina, l’etica e la legge, Margaret Somerville, la sua fondatrice e direttrice, non potrebbe essere più d’accordo. «Questa legge rappresenta una svolta radicale rispetto ai nostri valori tradizionali e condivisi rispetto alla vita umana – spiega – e ci costringere a rispondere di nuovo a una questione di base: è sbagliato uccidere intenzionalmente un’altra persona? Io credo di sì». Ma è ormai chiaro che le resistenze di parte della comunità medica e scientifica non fermeranno Véronique Hivon, ministro per i Servizi sociali del Quebec e autrice della legge 52 che, ironicamente, è stata un’allieva di Somerville all’università. «Naturalmente il consenso nella società non è unanime, ma è maggioritario», ha detto di recente, definendo la misura in discussione non la legalizzazione del suicidio assistito ma una «continuazione delle cure mediche». «Il nostro approccio alla questione è quello giusto – ha continuato –. La gente normalmente vuole vivere: questa realtà rappresenta la nostra tutela principale contro potenziali abusi».
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