venerdì 11 dicembre 2015
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«Dice un matto sulle scale / che rimpiange il Totocalcio / che era un gioco eccezionale... », canta Cesare Cremonini nella sua ultima Lost in the weekend. E per colpa del Totocalcio e di un “13” legittimo, eppure non ancora riscosso – dopo 34 anni – il signor Martino Scialpi di Martina Franca ha rischiato davvero di cadere nel tunnel della follia. La storia, «una vicenda fuori dalla grazia di Dio», commenta un esausto Scialpi, racconta di un giovedì 29 ottobre del 1981 quando l’allora trentenne Martino, tranquillo padre di famiglia e stimato commerciante, fece la sua classica giocata settimanale in una ricevitoria di Ginosa. Due colonne, costo: 500 lire. E quella domenica sera di tanto tempo fa, un 13 per niente da “quote popolari”, come annunciava di solito il buon Paolo Valenti al 90° minuto: bensì una vincita da 1 miliardo, 3 milioni, 54mila e 300 lire. Signor Scialpi, il sogno dell’italiano medio lei l’aveva realizzato... «Già, ma è svanito in 48 ore. Il martedì dal giornale appresi l’assurda notizia: parlava di quattro “13” realizzati a Torino, Jesolo, Pescara e Cernusco sul Naviglio. Di quello di Ginosa, il mio, neanche l’ombra». «Una doccia gelata», scrive nel suo libro Ho fatto 13! (a cura di Dino Cassone, Schena Editore). «Mi precipitai al Coni di Bari e lì mi dissero che la mia schedina non era mai pervenuta. Così è iniziata una battaglia legale in cui da truffato mi hanno fatto passare per un truffatore. C’è voluta una sentenza del 1987 per scagionarmi da quell’accusa infamante». Ha vinto una battaglia, ma la sua “guerra” continua. «Ho dovuto cambiare cinquanta avvocati, dopo sei mesi la maggior parte dei legali revocava l’incarico e molti di loro con motivazioni a dir poco sospette... Da Bari non ci hanno mai dato accesso agli atti e ai verbali del deposito della schedina che trenta processi hanno stabilito che era lì, quindi autentica, tant’è che poi è rispuntata fuori e ora la custodisce il notaio. Ma nessuno mi ha pagato e nel frattempo ho perso tutto». Sarebbe a dire? «Ho perso la mia famiglia, avrò investito un milione di euro per sostenere le spese processuali e da qualche anno ho dovuto smettere di lavorare per seguire a tempo pieno gli sviluppi di quella che ormai è diventata l’unica ragione della mia vita: la verità». Oltre al risarcimento morale, a quanto si ammonterebbe quello pecuniario? «Una perizia ha stabilito che per quel “13” mi devono 9 milioni di euro. Tanti, certo, ma dopo un simile calvario... E comunque se quei soldi arriveranno non dimenticherò di devolvere una parte a tutte le persone che soffrono, perché so bene che cosa significa la sofferenza». Quei soldi glieli dovrebbe il Coni, ma in tutti questi anni da Roma come si sono giustificati?  «Per il Coni hanno sempre parlato i loro legali, ma ormai il gioco è chiaro: qualcuno si è appropriato della mia schedina e ha pensato bene di spartirsi la vincita... A questo punto mi appello al presidente del Coni Giovanni Malagò per avviare una seria trattativa come ordinato dalla magistratura lo scorso novembre. Ho perso tanto, ma conservo ancora la fiducia nella giustizia e la fede in Dio. Dopo tanto buio, ora spero di rivedere presto la luce».
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