lunedì 9 dicembre 2013
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Undici minuti di applausi ieri alla Scala per una Traviata che segna la storia. Nel segno degli ultimi. Appena sul podio Daniele Gatti si gira veso il pubblico. Prende un microfono. «Signor Presidente, gentile pubblico, benvenuti. La città di Milano e il Teatro alla Scala desiderano ricordare Nelson Mandela». Spontaneo, caloroso, un applauso interrompe il direttore d’orchestra. Che poi chiede un minuto di silenzio per ricordare un uomo che «ha dimostrato un’umanità profondissima in tutta la sua vita». Sempre dalla parte dei deboli, degli esclusi. Dei diversi. Una scelta che ha pagato di persona. Dalla parte di Violetta, diremmo oggi. Perché quando la sala è immersa nel buio e sulle note del Preludio le luci illuminano una donna che si trucca davanti allo specchio, capisci che quella che sta per iniziare è la storia di una sconfitta. Quella di una società che non sa accogliere, che ha paura e che mette all’angolo il diverso. Ma è anche la storia di un riscatto, quello degli ultimi, che avviene grazie all’amore e al perdono. È iniziata così ieri al Teatro alla Scala La Traviata che ha inaugurato la nuova stagione lirica milanese. È iniziata con il ricordo di Mandela, è iniziata con l’Inno di Mameli, salutato dal pubblico con un applauso fuori ordinanza al quale si è unito anche il capo delloStato Napolitano in palco reale. È iniziata conVioletta, il soprano Diana Damrau, che si prepara a recitare la sua parte in un mondo che impone a ciascuno il proprio ruolo. Violetta è una diversa, perché si interroga, in una società che mette al bando il pensiero. La vuole cosìGatti, cuore e motore di una Traviata da brivido, la più verdiana mai ascoltata, perché vera, umanissima, dove dentro ci sono i sentimenti, quelli dell’uomo che Verdi ha messo in musica nel 1853. Gli stessi di chi oggi, centosessanta anni dopo, ascolta le medesime note. Lo sa bene il direttore d’orchestra milanese che offre una prova di maturità assoluta: nella sua Traviata mette la vita, piega la musica al racconto del travaglio di un’anima. Che ti cattura, ti turba, ti sconvolge per la verrità che trasmette. Ogni nota, perfino ogni virtuosismo, è al servizio di una drammaturgia dei sentimenti e con il teatro si fa vita. Violetta nostra contemporanea. La vuole così il regista russo Dmitri Tcherniakov, specchio di una società che tenta di scacciare la crisi con una risata. Lo fa mettendo in scena un’umanità che ricorda i film di Ozpetek ma anche gli scatti dei paparazzi alle feste romane. Perché la casa di Violetta, in stile ottocentesco, si popola di stravaganti personaggi che, abbigliati come tanti cafoni contemporanei, sui ritmi di valzer del “Libiamo” ballano come fossero in discoteca. Perché la donna, colpita dall’amore di Alfredo (il tenore Piotr Beczala) confida i suoi tormenti ad Annina (una ritrovata Mara Zampieri con chioma rossa) fumando un sigaro e bevendo whisky. Lo fa con un colpo di teatro che spiazza – e che fa mormorare qualcuno in sala – ambientando il secondo atto nella cucina di una casa di campagna, dove Alfredo tira la pasta e Violetta in vestaglia e ciabatte offre un tè a Germont (il baritono Željko Lucic) venuto a chiederle un sacrificio. Cucina dove c’è una bambola abbigliata come Violetta nel primo atto, segno di un passato che incombe e che ritorna quando, alla festa di Flora – dove non ci sono zingarelle e toreri ma arricchiti che bevono e fumano, si nutrono di gossip e fanno a pugni – la donna si rimette la maschera. Che è una parrucca bionda che la fa tanto simile a Marilyn. E che si toglie quando, oltraggiata da Alfredo, comprende che la sua vita è ormai segnata: diversa, esclusa, non le resta che morire.

Morire sacrificandosi per amore. Ed è qui che vedi il volto di Violetta, che muore su una sedia tra pillole e alcol, illuminarsi del perdono. Del quale il mondo ha ancora bisogno. Qui, come nell’“Addio del passato”, la Damrau raggiunge una verità che inquieta, ma al tempo stesso consola perché fa intravedere la misericordia di Dio. Gatti, dalla buca dell’orchestra, lo allunga sui personaggi che Tcherniakov vuole sempre in movimento, pieni di tic. I cantanti – spesso applauditi a scena aperta – sposano in pieno la lettura musicale e le scelte registiche. Regalando anche un brivido quando nel finale del secondo atto la Damrau entra in scena in ritardo per una caduta dietro le quinte e non canta due frasi. La Traviata di Gatti, Tcherniakov e Damrau segna un punto di non ritorno. Come avvenne nel 1955 con la storica edizione di Visconti con la Callas e Giulini sul podio. Come allora il pubblico si divide: applausi e fiori per Gatti e cantanti, per il regista sonori dissensi che alla fine si tramutano in insulti tra i loggionisti.

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