venerdì 19 febbraio 2016
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Sarà meglio ammetterlo subito: ad addolorare, a suscitare incredulità e rabbia, a provocare scandalo ancora adesso, a tanti anni dai fatti, non è il film, ma la storia che racconta. Vera, purtroppo, e documentata nel dettaglio, talvolta in modo addirittura didascalico. Per quanto, poi, Spotlight di Tom McCarthy (presentato fuori concorso lo scorso settembre alla Mostra del Cinema di Venezia e uscito in sala il 18 febbraio, distribuito da Bim) non sia una di quelle opere da giudicare esclusivamente o prevalentemente in base alla resa estetica. Grandi prove d’attore, d’accordo, ma il fascio di luce – questo, alla lettera, il significato di spotlight – continua a concentrarsi sugli abusi sessuali commessi dagli anni Settanta in poi da decine e decine di sacerdoti dell’arcidiocesi di Boston. La squadra di giornalismo investigativo del “Boston Globe”, denominata appunto “Spotlight”, arrivò a individuarne 87 e di 70 ricostruì i crimini in maniera tanto inoppugnabile da indurre alle dimissioni il cardinale Bernard Law, che nel corso degli anni aveva avvallato la pratica di spostare i preti colpevoli da una parrocchia all’altra, rendendo così possibile il ripetersi delle aggressioni sui minori. La prima, esplosiva puntata dell’inchiesta uscì nel gennaio del 2002, nel dicembre dello stesso anno il cardinale lasciava gli Stati Uniti per stabilirsi presso la basilica romana di Santa Maria Maggiore. Un trasferimento che, nelle didascalie finali del film, viene assimilato a una beffarda promozione e che invece, nella sostanza, segnò l’uscita di scena di un porporato che fino a quel momento aveva goduto della massima stima sia dei fedeli sia delle gerarchie vaticane. La scena in cui Law si incontra con il nuovo direttore del “Boston Globe”, Marty Baron (interpretato dall’attore Liev Schreiber), è in questo senso particolarmente incisiva: dopo aver ricordato la propria partecipazione alle battaglie per i diritti civili, il cardinale fa dono al giornalista di una copia del Catechismo della Chiesa cattolica, di cui lo stesso Law fu uno degli estensori.In linea di massima, quando Spotlight racconta qualcosa, lo racconta con esattezza. Ci sono omissioni (non si fa cenno, per esempio, alle linee guida sugli abusi sessuali del clero che la Conferenza episcopale statunitense aveva promulgato già nel 1992 e che molte diocesi avevano prontamente applicato) e qualche occasionale travisamento, come quello relativo al destino di Law. Ma l’assunto generale è tutt’altro che ostile al cattolicesimo e alla stessa Chiesa. Se ne è avuta conferma durante la conferenza stampa di ieri, nel corso della quale il regista, rispondendo alla prevedibile domanda sul nesso tra celibato sacerdotale e pedofilia, ha escluso ogni sbrigativo automatismo. Da parte sua l’attore Mark Ruffalo – che in Spotlight impersona l’intraprendente reporter Michael Rezendes – sottolinea che a Boston non era solo la Curia a sapere che cosa stesse succedendo: «Dalla polizia alle istituzioni scolastiche tutti, in un modo nell’altro, facevano finta di non vedere», ripete. Uno degli snodi del film è rappresentato, non a caso, dal momento in cui l’integerrimo caporedattore Walter “Robby” Robinson (un Michael Keaton di eccezionale mimetismo) si rende conto di avere completamente sottovalutato una denuncia che avrebbe permesso di rivelare lo scandalo con quasi dieci anni di anticipo.In parte celebrazione del giornalismo vecchio stile, in parte dramma procedurale nella tradizione di Sidney Lumet, esplicitamente citato come fonte di ispirazione da McCarthy, Spotlight cerca a tratti di sviluppare una riflessione sulla necessità e sull’apparente impossibilità di credere. «Quando un prete ti fa questo, ti ruba la fede», dice uno dei sopravvissuti agli abusi. Proprio sul versante spirituale del tradimento commesso dai sacerdoti predatori la sceneggiatura insiste a più riprese. Sacha Pfeiffer, l’unica donna del team investigativo (l’attrice Rachel Mc Adams), non ha il coraggio di spiegare alla nonna, assidua praticante, la natura dello scoop a cui sta lavorando. E lo stesso Renzendes di Mark Ruffalo confessa di aver atteso a lungo di sentir nascere in sé il desiderio di tornare alla fede, ma di essere ormai sfiduciato. «Mi auguro che questo film possa favorire un processo di guarigione anche per la Chiesa», afferma l’attore, che ha parole di profonda ammirazione per papa Francesco. Un entusiasmo condiviso in conferenza stampa dal mattatore Stanley Tucci, che in Spotlight presta il volto all’avvocato di origine armena Mitchell Garabedian, la cui collaborazione si rivelò decisiva per l’inchiesta del “Boston Globe”. Il regista McCarthy, da parte sua, ostenta prudenza, esorta a non accontentarsi dei buoni propositi e dice di aspettare azioni concrete. Che in effetti, dal 2002 in poi, non sono mancate, nella Chiesa americana così come in quella universale. Il racconto di Spotlight si concentra sulla fase di preparazione del reportage e si interrompe con la pubblicazione dell’articolo inaugurale. Dopo di che partono i titoli di coda: Law, Santa Maria Maggiore, un lungo elenco di diocesi coinvolte dagli scandali sessuali in tutto il mondo. Volendo, si sarebbero potute aggiungere le parole pronunciate da Giovanni Paolo II il Giovedì Santo dello stesso 2002, con le quali il Papa non esitava a evocare la categoria apocalittica del mysterium iniquitatis. Si sarebbe potuta richiamare la Conferenza di Dallas (giugno del medesimo anno), che stabilì la linea di “tolleranza zero” dell’episcopato Usa nei confronti dei crimini sessuali del clero. E, ancora, ricordare l’insistenza di Benedetto XVI su questo tema, i molti provvedimenti già attuati da Francesco. Il film qualcosa omette, dicevamo, e non è solo il clamore che nei mesi successivi alle rivelazioni del “Globe” rischiò di travolgere il dramma nella solita melassa da talk show. Non si dice nulla, per esempio, della sorte di padre John Geoghan, il sacerdote dai cui crimini l’inchiesta prese avvio. Per la cronaca, fu ucciso in carcere da un compagno di cella nell’agosto del 2003.
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