sabato 30 novembre 2013
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Quella che ormai vediamo tutti è la classica punta dell’iceberg, fatta in questo caso di biciclette e automobili "pubbliche" che girano per le città guidate non dai proprietari, ma dagli abbonati. Sotto, però, c’è un iceberg che si chiama sharing economy. I primi a rendersene conto sono quelli che rischiano di esserne travolti. Ad esempio i tassisti.Fino a qualche anno fa chi voleva muoversi in città aveva poche opzioni: camminare, usare i propri mezzi, farsi dare un passaggio, sfruttare il trasporto pubblico o prendere un taxi. Oggi il carsharing (soprattutto nella sua forma più innovativa, sperimentata dalla Daimler a Milano con Car2Go, dove le auto non sono legate a delle stazioni, ma si prendono e si lasciano dove si preferisce) è un’alternativa economica al taxi. Un’altra alternativa sono le auto degli Ncc (il tradizionale noleggio con conducente) da prenotare con pochi secondi di anticipo dal telefonino attraverso un’applicazione chiamata Uber. Il risultato è che i cittadini spendono di meno per spostarsi, mentre i tassisti vedono scendere l’incasso di fine giornata. Le prossime potenziali vittime dell’iceberg che avanza sono gli albergatori. Hanno davanti rivali nuovi e non sanno come contrastarli: servizi come i siti Airbnb o il Couchsurfing che permettono a chiunque di affittare ai turisti la propria casa, una stanza o anche solo il divano letto. A prezzi ridotti se non azzerati. E siamo solo all’inizio. Perché la sharing economy, l’economia della condivisione, sta esprimendo ancora solo una parte del suo potenziale.Si possono individuare quattro grandi tipi di economia condivisione: lo "sharing", cioè l’uso comune di risorse (come le bici pubbliche); il "bartering", che consiste nello scambio di beni e servizi tra privati; il "crowding", ossia la collaborazione (economica o progettuale) di più persone per lo sviluppo di un prodotto o di un servizio; il "making", che prevede l’autoproduzione attraverso la rete. Ieri a Milano l’Università Cattolica assieme a Collaboriamo.org hanno organizzato "Sharitaly", il primo evento italiano dedicato a questo fenomeno che, secondo uno studio del centro di ricerca Duepuntozero Doxa, si sta avvicinando al suo «punto critico di diffusione»: significa che ha raggiunto il 15% degli italiani e può dirigersi verso una diffusione di massa. Non è detto che accada. «Le percentuali sovrastimano un fenomeno allo stadio iniziale» ha avvertito Mario Maggioni, direttore del Centro di ricerca in scienze cognitive e della comunicazione della Cattolica. Questa economia informale, "della gente e per la gente", ha ancora molti limiti. Eppure è dovunque. Nei campi da calcetto, dove i ragazzi trovano compagni di squadra sulla piattaforma Fubles; nelle cucine, con siti come Gnammo dove i cuochi si mettono a disposizione per preparare una cena e i "mangiatori" si iscrivono per partecipare; nelle barche a vela, col servizio Sailsquare in cui sconosciuti si organizzano per un viaggio in barca comune.Non è un mondo di non profit: ci sono grandi multinazionali che ci lavorano (per esempio la già citata Daimler in Germania e Stati Uniti ha già trovato nel carsharing un rivale pesante come Bmw) e chi individua il servizio giusto spesso ci fa i milioni. Chiedere ai creatori israeliani di Waze, il navigatore gratuito per cellulari dove le mappe e i percorsi li creano gli utenti con i loro viaggi. Google ha visto la loro applicazione e ha capito che non poteva rischiare di averla come rivale. Per comprarla ha dovuto sborsare un miliardo di dollari.
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