venerdì 3 luglio 2015
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La calda estate economico-finanziaria di quattro anni fa se la ricorda perfettamente. Lo spread impazzito e schizzato oltre i 500 punti; il rischio concreto che l’euro finisse frantumato in mille pezzi; molti Paesi membri dell’Unione in profonda recessione. Allora, prima ancora di essere nominato ministro del Tesoro nel governo guidato da Enrico Letta, Fabrizio Saccomanni era direttore generale della Banca d’Italia. «Quella era una crisi esistenziale che è stata risolta grazie alle politiche e agli strumenti messi in campo dalla Bce», racconta. Adesso – analizzando la situazione greca dall’osservatorio prestigioso di docente alla Scuola di economia politica dell’Università Luiss, oltre che all’European Institute della London School of Economics (LSE) –, Saccomanni non vede analogie con quanto avvenuto nel 2011. Ed esclude che, a prescindere dall’uscita o meno della Grecia dall’euro, possano esserci gravi conseguenze per l’Eurozona. «Il quadro è profondamente diverso sia sul piano delle difese istituzionali che su quello degli andamenti congiunturali. Per cui il rischio di un effetto contagio per un’eventuale Grexit è davvero molto basso. Non mi pare, del resto, che l’esposizione del Paese ellenico sui mercati sia tale da poter creare uno scompiglio internazionale». Quali sono gli 'scudi' che rendono improbabile lo scoppio di una nuova tempesta nei cosiddetti Paesi periferici? Ora, ad esempio, c’è la vigilanza unica. E c’è anche l’Esm (meccanismo europeo di stabilità), che ha un capitale versato di 80 miliardi ma una potenza per arrivare a oltre 700. Inoltre gli Stati che sono stati sottoposti ai programmi di assistenza come Spagna, Portogallo e Irlanda hanno migliorato le loro condizioni economiche. Anche l’Italia ha rafforzato i propri conti e iniziato il percorso di riforme. A una crescita delle economie dei vari Paesi, si aggiungono altri elementi congiunturali positivi: dollaro più forte, discesa del prezzo del petrolio e tassi di interesse più bassi. Se non si deve temere il peggio, perché allora l’uscita della Grecia fa così tanta paura? Sarebbe un evento straordinario, non ci sono precedenti e si camminerebbe in un territorio inesplorato. Queste sono le preoccupazioni principali. Ecco perché sarebbe meglio evitare la Grexit. Ma se alla fine si dovesse verificare, ci sono tutti i mezzi per gestirla. Anche l’euro non è in pericolo. Perché non è un paniere di valute, ma una moneta. E se un Paese decide autonomamente di cambiare valuta non significa che si rompe un pezzo di euro. Alla Grecia non servirebbe un’intesa a tutti i costi? Ero convinto che un accordo si sarebbe trovato prima della scadenza della rata da 1,6 miliardi con il Fondo monetario internazionale nell’interesse sia della Grecia sia dell’Europa. Poi, invece, la carta del referendum giocata da Tsipras ha inutilmente complicato la vicenda. Certo, se Atene uscirà dall’euro, il rischio che il suo sistema economico subisca un ulteriore trauma è elevato. Ritiene sbagliata la decisione di indire una consultazione popolare? Forse avrebbe avuto un senso un mese fa, ma adesso no. Sono stati sbagliati i tempi. Fissare un referendum dopo la scadenza del debito, tra l’altro con poche indicazioni precise sul mandato che il governo chiede ai cittadini, ha avuto solo l’effetto di allontanare le parti e di impedire finora una chiusura positiva del negoziato. Crede che il premier greco abbia agito più per interessi personali che per il bene del suo Paese? Mi sembra evidente che Tsipras sia concentrato soprattutto sui problemi interni. E non ha mantenuto una posizione negoziale lineare. La chiamata alle urne, inoltre, assomiglia molto a una verifica per vedere se l’attuale governo gode ancora della fiducia della maggioranza del popolo greco. Come giudica il comportamento tenuto dalla Bce in questa partita? La Banca centrale europea ha agito nel modo migliore possibile, fornendo liquidità alle banche e mantenendo invariati al massimo di 89 miliardi i prestiti d’emergenza Ela. Quest’ultimo è un segnale forte e positivo, che ha evitato ulteriori ripercussioni negative. Poi, se ci dovesse essere la necessità, l’Eurotower sarà pronta a ricorrere ad altri strumenti straordinari e continuerà comunque a portare avanti la sua politica di quantitative easing. Le colpe di questa situazione sono solo della Grecia o anche l’Europa ha alcune responsabilità? Il dialogo tra le due parti è molto complicato. L’Europa ha le sue rigidità, ma è anche trasparente nelle regole stabilite e nelle decisioni prese. Non si può pretendere che governi e istituzioni comunitarie azzerino un debito enorme come quello greco dalla mattina alla sera. A essere insostenibile, più ancora del passivo ellenico, mi sembra la situazione finanziaria del Paese. In Grecia il settore pubblico negli ultimi anni è cresciuto a dismisura, non sono state fatte le privatizzazioni né è stata contrastata in modo efficace l’evasione fiscale. Mi pare che, da quando si è insediato, l’esecutivo Tsipras si sia limitato a fare solo proclami, dimostrando poca capacità di saper risolvere i problemi. Al di là di come finirà, che cosa insegna la crisi greca all’Europa? Una lezione da imparare è che sono indispensabili strumenti idonei per agire in maniera tempestiva nella gestione delle crisi debitorie. Più in generale, invece, mi auguro che si acceleri il processo di riforma dell’Ue. In Europa va creata una vera unione politica, in cui la dimensione comune non sia più subordinata agli interessi dei singoli Stati nazionali.
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