venerdì 15 luglio 2016
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Il loro incontro “ufficiale” risale a quattro anni fa, in un edificio umido tra la chiesa ortodossa e la moschea Ebu Bekir. La neve sciolta gocciola dal soffitto, disturbando la poesia di un momento che segnerà la fortuna di entrambi i protagonisti di questa saga italo- albanese. E forse, tra non molto, anche il destino culturale del luogo in cui è ambientata:  Scutari, a nord, sul crinale tra l’Albania  più tradizionalista e quella che non ha mai smesso di guardare all’Europa.  Una città con poco più di centomila abitanti che nelle scorse settimane ha inaugurato un museo della fotografia già connesso con le più prestigiose gallerie mondiali del settore, dal Foam di Amsterdam all’Icp di New York.

Il primo personaggio di questa storia si chiama Pietro Marubbi ed è un giovane piacentino con simpatie garibaldine. A metà Ottocento parte da un’Italia in subbuglio e, dopo un avventuroso viaggio nell’Adriatico, approda a Scutari, che è ancora un’ideale enclave veneziana dentro l’impero ottomano.  In un clima intellettuale dinamico e tollerante, nel 1856 il transfuga ventiduenne apre uno studio fotografico che, a soli 17 anni dall’invenzione del dagherrotipo, è il primo di tutti i Balcani. Lui mette radici, cambia nome in Pjetër Marubi, cura i progetti architettonici del consolato italiano e della cattedrale cattolica di Santo Stefano, realizza ritratti per privati e reportage per riviste come L’illustrazione italiana.  Le tre generazioni di fotografi allevati nel suo atelier, attivi fino al crollo del comunismo, consegneranno alla storia un’eccezionale documentazione iconografica di questa terra al crocevia tra Oriente e Occidente. 

Il secondo personaggio, Luçjan Bedeni, nella “Firenze dei Balcani” nasce in tutt’altra epoca, nel 1987. Dopo i premi internazionali per le sue opere tra pittura e video e le residenze d’artista negli Stati Uniti, torna a Scutari, controcorrente in una nazione di diaspora ormai cronica. Mentre insegna arte alla scuola dei Gesuiti, pensa a cosa inventarsi per riaccendere le luci internazionali sulla sua città, adombrate dal comunismo, dal caos degli anni Novanta e dall’emorragia migratoria. Finché, nel 2012, ottiene dal ministero dalla Cultura la direzione della Fototeca Marubi, che era stata forzatamente ceduta nel 1970 al regime di Enver Hoxha e nella nuova, agitata Albania post-comunista aveva soffocato nella polvere quel tesoro di stampe, negativi e macchine a soffietto.  «Il primo giorno di lavoro mi sono messo i guanti per salvare i materiali dall’umidità e ho persino pulito il bagno» sorride oggi il giovane Bedeni ricevendoci nel nuovo museo cui è riuscito a dare forma in Rruga Kolë Idromeno, nel centro pedonale della città. Due piani di stampe in bianco e nero che narrano i paesaggi e la società di Scutari attraverso 131 anni: dalla prima foto nota di Pietro Marubbi, un ritratto del combattente anti-ottomano Hamza Kazazi, fino al 1989 con gli scatti su pellicola di Hilmi Mustafa, l’ultimo della scuola del maestro piacentino. C’è Shan Pici, che tra le due guerre mondiali fissa i monti e i tre fiumi di Scutari in immagini che sembrano presagire il linguaggio di Sebastião Salgado. Il figlio adottivo di Marubi, Kel, che si perfeziona a Trieste nello studio Sebastianutti ed esegue intensi ritratti familiari. Kolë Idromeno, pittore e architetto prestato anche alla fotografia. E Gegë Marubi, figlio di Kel, formatosi dai fratelli Lumière a Parigi e pioniere, in Albania, della tecnica a infrarossi. «Un archivio inestimabile, lasciato a se stesso per oltre quarant’anni » sottolinea Bedeni. «Mezzo milione di negativi su vetro e su pellicola, stampe antiche originali, i diari degli artisti, la loro corrispondenza e circa 300 macchine fotografiche che attraversano tutte le fasi tecniche di quest’arte. Scutari è la capitale balcanica della fotografia: doveva avere il suo museo». Al pian terreno, la mostra inaugurale è dedicata ai soggetti femminili di una dinastia tutta maschile: volti di montanare in abiti tradizionali, affascinanti quanto le dame borghesi e le donne importanti come Shaqe Çoba, prima intellettuale nella Scutari d’inizio Novecento, Shote Galica, eroina della guerriglia contro i serbi, fino alla scrittrice inglese Edith Durham che consacrò il nord dell’Albania a fonte d’ispirazione. Al primo piano è invece esposta una selezione dei 12 fotografi cresciuti allo Studio Marubi, con materiali d’epoca e una ricostruzione del fondale disegnato da Pietro per mettere in posa i suoi clienti. Mentre tre postazioni video mandano film documentari sulla Scutari che fu. Con l’azzardo del neofita, Luçjan Bedeni ha bussato alle porte delle ambasciate, del Fondo di sviluppo americano-albanese, di mecenati svizzeri e tedeschi, raccogliendo in tempi record un milione e 200mila euro per aprire il museo. E grazie all’agenzia dell’Onu Undp e alla Regione Friuli Venezia Giulia, è in corso la digitalizzazione dell’intero archivio che confluirà in una galleria virtuale, fruibile su internet da ogni parte del mondo. «Questa è un’eredità non solo albanese, bensì europea», dice. «La nostra storia è profondamente legata all’Europa, al cristianesimo, e io spero di veder entrare al museo sempre più abitanti di Scutari, prima quasi ignari dell’esistenza di un simile patrimonio». Nel futuro, oltre a scambi di mostre con il Foam di Amsterdam, l’Icp di New York e il Jeu de Paume a Parigi, Bedeni progetta di fare della sua galleria il fulcro di sperimentazioni d’arte contemporanea, convinto che «un museo può cambiare una città. Il mio sogno» - confida - «è trasformare un capannone industriale di periferia in un polo simile al MoMa Ps1 di Queens, a New York, dove coltivare i nuovi talenti». A fine anno, intanto, l’enfant prodige balcanico pubblicherà un libro su Pietro Marubbi, svelando episodi della sua biografia, umana e artistica, finora ignoti. «Vorrei presentarlo anche a Piacenza, dove temo che in pochi conoscano questo loro concittadino autore di un capitolo fondamentale nella storia della fotografia».
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