venerdì 28 agosto 2015
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Un gesuita amico di Trilussa, col quale amava passeggiare sul Lungotevere a Roma e di Giovanni Papini, con cui era solito confrontarsi sulla figura di Cristo, ma anche un intellettuale di razza che attraverso le sue pubblicazioni, a cominciare dall’opera più corposa, in sette volumi, Scrittori al traguardo, aprì, in un certo senso, la strada e un nuovo incipit di ricerca per lo studio della letteratura e del sacro al suo più noto confratello Ferdinando Castelli. È la storia, ma anche la cifra umana e accademica del gesuita di La Civiltà Cattolica Domenico Mondrone, vissuto tra il 1897 e il 1985, che per 54 anni fu redattore del quindicinale: un record imbattuto per tutto il Novecento. Una figura di religioso e di sacerdote che, per la sua capacità di introspezione sulla ricerca del sacro nei grandi scrittori, rappresentò, con le dovute differenze, il precursore e il “maestro” della successiva opera in chiave più moderna e introspettiva, compiuta anni dopo su questo delicato tema da padre Castelli. Non a caso, per la sua capacità di indagine critica, nel 1943 venne definito da Carlo Magi Spinetti in Nuova Antologia: «uno scrittore elegante e sostanzioso». Mondrone sarà, tra l’altro, uno dei primi recensori, proprio sul quindicinale dei gesuiti, del carteggio tra Prezzolini e Papini. A 30 anni dalla morte avvenuta nel pomeriggio del 28 agosto del 1985 in una clinica a Roma, rimangono oggi molte sue pubblicazioni (molte edite dalla piccola casa editrice romana Pro Sanctitate) dedicate a scrittori “conosciuti da vicino” a cui dedicò osservazioni acute per la loro attenzione al mistero del sacro come Ada Negri (ne fu uno dei primi scopritori e recensori in chiave positiva), Riccardo Bacchelli, Umberto Saba o Mario Luzi; ma anche le sue feroci critiche come nel caso di Alberto Moravia («cinismo e sfacelo nelle sue opere») o ancora di André Gide definito dal gesuita «avvelenatore di anime». Come sicuramente significativo e fulminante fu il giudizio che destinò a Cesare Pavese, con il suo apparente «mondo senza Dio», nella pubblicazione Scrittori al traguardo, ove rilesse il «dramma interiore» dell’autore di Lavorare stanca, in cui «è andato a impigliarsi e che fa pensare a certi momenti sartriani». O ancora quello riservato all’amico Trilussa (a cui chiese di scrivere, tra l’altro, un sonetto alla Vergine diventato poi la famosa poesia Pensanno a la Madonna): «Sulla fede appresa dalle labbra materne e praticata forse con fervore nel Collegio di San Giuseppe, a piazza di Spagna, sarà caduta molta polvere, ma non la ventata della miscredenza. Forse il rispetto umano, forse la consapevolezza del contrasto tra la purezza della fede e le fragilità della vita, gli avranno consigliato di non professarla a bandiera spiegata, ma non di disfarsene interamente». Di Mondrone, nato a Caiazzo (Caserta) il 15 marzo del 1897, entrato nella Compagnia di Gesù nel 1914 e divenuto sacerdote nel 1927 rimane, insomma, attuale l’opera di critico attento alla letteratura spirituale e la capacità di prendere le distanze dalla cultura dominante del suo tempo, dominata da Francesco De Sanctis e Benedetto Croce o dai canoni dell’idealismo tedesco. «Anche allora il padre Mondrone – ha scritto lo studioso Giorgio Papasogli – andò contro corrente aprendo una via originale: le pagine di lui insegnavano a intendere il valore spirituale e morale come inscindibile del risultato estetico e, anzi, intrinseco a esso, e l’incontro con gli scrittori come un incontro di coscienze e di anime». Non è un caso che già nel 1950 (come aveva fatto con le sue pubblicazioni il futuro arcivescovo di Milano Giovanni Colombo) e molto prima della rilettura post- moderna di Michel de Certeau, padre Mondrone fu uno dei grandi ammiratori delle opere di un gesuita mistico ed esorcista come lui (basti pensare al diffusissimo opuscolo mondroniano A tu per tu col Maligno): Jean Joseph Surin (1600-1665). Il religioso ignaziano vanterà anche un altro primato: quello di far conoscere proprio su La Civiltà Cattolica la storia di santità di Maria Goretti. A lui si deve una delle prime biografie dedicate al futuro San Pio da Pietralcina e quella su padre Felice Cappello, il gesuita canonista, “confessore di Roma” morto in fama di santità. Singolare e fuori dal coro la “sua laudatio” per la morte, nel 1962, del grande storico della pietà don Giuseppe De Luca, il sacerdote amico di Giovanni XXIII: «pagine ammirate» le definirà anni dopo il critico letterario Pietro Zovatto. Ma il terreno su cui Mondrone, ormai anziano, profonde il meglio di sé sono i nove volumi I santi ci sono ancora (con 128 profili in cui figurano, tra gli altri, i nomi di La Pira, madre Teresa di Calcutta, don Guanella fino a Martin Luther King). C’è poi infine uno spezzone inedito di padre Mondrone che emerge dagli appunti in cui rievoca la sua vita alla Civiltà Cattolica: come l’irruzione dei fascisti nella sede della rivista allora in via Ripetta a Roma, il carisma che suscitava in lui il gesuita, amico e confidente di Mussolini, Pietro Tacchi Venturi, la sua «ammirazione» per padre Riccardo Lombardi, il “microfono di Dio” per come «accettò la sua avventura con religioso silenzio» a inizio del Vaticano II. Nel ricordo di chi lo conobbe resta lo stile fermo e il rigore intellettuale di questo gesuita che si definiva «scarso di ogni dono di parola e di capacità oratoria», ma capace di supplire questo handicap «con l’attività letteraria e gli scritti» per così offrire «un po’ di apostolato per il bene delle anime». Leggi anche: ​Il ricordo di padre Bartolomeo Sorge
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