sabato 18 gennaio 2014
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C’è un modo per alleggerire le carceri di 15 mila detenuti nel giro di pochi giorni. «Ma ci vuole coraggio e volontà politica», avverte Donato Capece, storico segretario del Sappe, il sindacato degli agenti penitenziari. In cella ci sono oltre 4mila persone arrestate per immigrazione irregolare e più di 10mila tossicodipendenti, che dietro le sbarre ricevono «metadone e nessun percorso di disintossicazione e recupero». Se questi ultimi venissero affidati a comunità terapeutiche e «se venisse abolito il reato di immigrazione clandestina, di colpo porteremmo la popolazione carceraria al di sotto delle 48mila persone», cioè entro i limiti della capienza delle strutture penitenziarie. E si potrebbe fare ancora di più: altre centinaia di posti si potrebbero liberare cancellando «la norma che equipara il possesso di marijuana a quello di cocaina o eroina».Quella di Capece non è una proposta spot. «Non è vero, come sostiene qualche politico, che il problema non sono i numeri dei detenuti, ma l’insufficienza dei posti disponibili. La questione è prima di tutto politica e culturale». Per il sindacalista occorre decidersi: «Se vogliamo che le carceri siano un contenitore di tutto ciò che la gente non vuole vedere per strada, allora non ci saranno mai posti a sufficienza. Se invece devono essere un luogo per offrire una nuova opportunità, bisogna ricominciare daccapo».Gli specchietti per le allodole non mancano. L’ultimo è il provvedimento che consente l’apertura delle celle per non tenere i detenuti rinchiusi in pochi metri, consentendo di poter passeggiare nei corridoi per alcune ore al mattino e al pomeriggio. «Il risultato è che molti ci chiedono di tenere le celle chiuse». Perché? «Ma è chiaro, perché così si favorisce la legge del più forte – osserva Capece –. Il personale può intervenire solo in caso di situazioni critiche, perciò i condannati che vantano uno spessore criminale rilevante entrano ed escono dalle altre celle prendendo sigarette, generi alimentari e altri beni di detenuti che non sono in condizione di ribellarsi».Anche i dirigenti penitenziari da mesi lamentano il ritardo della politica. «Per la verità ripetiamo oramai da anni che l’emergenza penitenziaria discende da problemi strutturali che traggono origine da una cultura errata», sostiene Rosario Tortorella, segretario nazionale del sindacato dei direttori delle strutture penali (Sidipe). Una mentalità «secondo la quale il carcere è l’unica pena utile», alimentata «dall’ipertrofia del diritto penale, dal depotenziamento delle misure alternative, dall’uso eccessivo della custodia cautelare, dall’enorme durata dei processi». Circa il 40% dei detenuti, infatti, è in attesa di una sentenza. Perciò dal Sidipe ribadiscono che «il rispetto dei diritti della persona è una condizione essenziale senza la quale non può esistere vera giustizia, ma solo una forma di arcaica vendetta».
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