mercoledì 28 agosto 2013
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Chi mente nella guerra delle bugie siriana? Mentono i ribelli, quando affermano che è stato il regime a provocare 1.300 morti nei sobborghi di Damasco con le armi chimiche? Mente Assad, quando dice che sarebbe stato un suicidio usare i gas contro la popolazione civile e accusa i “terroristi” di averlo fatto? Neanche questa ennesima serie di domande, in un conflitto che ci ha abituato alle menzogne su vittime e carnefici, troverà risposta. O, meglio, ognuno risponderà a modo suo. Accertare la verità è difficile, ma non impossibile. Se i dubbi sono pochi sull’effettivo uso dei gas, con centinaia di persone uccise in pochi minuti, anche scoprire chi ha perpetrato il massacro non è un’impresa insormontabile: la Siria è monitorata, 24 ore su 24, dai satelliti, l’intelligence abbonda. Washington dice che esibirà le prove «in settimana», forse già oggi, ma come lo farà? E perché il regime non è riuscito, a sua volta, a dimostrare la propria innocenza?Ecco, il problema è tutto qui: ormai le prove sembrano non servire più. Perché il momento politico ha superato la “linea rossa”. E non, si badi, la linea della verità – tracciata esattamente un anno fa da Barack Obama – contro l’uso da parte del regime dei propri arsenali chimici, linea oltre la quale si sarebbe scatenata la reazione americana. Ma la linea della guerra, decisa a tavolino da qualcuno proprio nel momento in cui la feroce crisi siriana era ormai giunta a un sostanziale punto di “chiusura”. Dopo oltre centomila vittime (stimate) e almeno due milioni (sottostimati) di profughi nei Paesi vicini. Non servono prove per certificare il superamento di quella linea rossa, basta una serie di eventi. Che sono progressivamente precipitati, o che sono stati fatti precipitare. Innescando la stessa “macchina del convincimento” che, purtroppo, già in altre occasioni abbiamo conosciuto. Da un lato un dittatore, dall’altro un fronte ribelle spaccato al proprio interno, con avanguardie jihadiste e autentici combattenti per la libertà. E all’esterno di tutto questo equilibri geopolitici e interessi per i quali ben poco contano le sofferenze di un popolo che dal marzo di due anni fa vive in uno stato di guerra permanente. Per questo le prove – la smoking gun (pistola fumante), come ci ha abituati a conoscerla l’era Bush – ormai non servono più.Un’azione militare ci sarà, sarà probabilmente limitata e non risolverà in tempi brevi una situazione ormai irrisolvibile dal punto di vista militare. Finirà per aggravare le condizioni della popolazione, perché ridarà fiato alla guerra. È come se gli Stati Uniti dovessero ormai «fare qualcosa»: gli inglesi premono, i francesi altrettanto, gli alleati arabi sunniti pure. E il messaggio mediatico che è stato veicolato è inequivocabile e impegnativo: i crimini non possono restare impuniti. La cosa più drammatica è però che a questo punto nessuno – dicono – appare più disposto a fare un passo indietro: non le potenze occidentali, non la Russia e l’Iran (in convergenza con la Cina) grandi protettori di Assad, non il regime stesso di Damasco. I generali americani suggeriscono il lancio di missili: un’azione breve, limitata e altamente “chirurgica” al punto da non indurre gli altri “attori” a reagire più del dovuto. Una sorta di “calcolo della polvere” per confezionare l’ordigno di un’esplosione pilotata, come quando si abbatte in un colpo solo un vecchio grattacielo. Ma se il calcolo fosse sbagliato? Paralizzata e scavalcata l’Onu, resa inutile la verità, ignorato a lungo il grido di chi soffre in Siria, la situazione pare inesorabilmente destinata a fare un triste salto verso il buio. Eppure il tempo per un passo indietro c’è ancora. Prima che un ulteriore avvitamento della crisi possa creare in una regione martoriata da guerre e ingiustizie una situazione forse mai vista prima. Il cammino della pace, stavolta più che mai, comincia con un passo indietro. Chi sarà disposto a farlo per primo?

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