martedì 9 luglio 2013
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Pubblicità ingannevole. Di questo dovremmo parlare, quando certi titoli urlati fanno intendere qualcosa di profondamente diverso dalla realtà. «Il primo bimbo libero da malattie», campeggiava ieri sulle colonne di un importante quotidiano, ma non è la verità. Al bambino nato da poco è stata fatta, grazie a una nuova tecnologia, un’analisi completa del Dna in poche ore, quando era ancora allo stato embrionale – e c’è persino chi ha coniato un termine specifico per un embrione di pochi giorni, definendolo «un abbozzo di embrione», anche questa una novità scientifica, chissà su quali basi – e si è visto che, in buona sostanza, il suo patrimonio genetico non ha mutazioni considerate significative dal punto di vista patologico.Già, perché l’espressione «geneticamente sano» non ha senso. Si può dire che non sono state rilevate alterazioni responsabili di patologie conosciute, ma non si può certo spacciare tutto questo per un bambino «libero da malattie»: ne esistono moltissime altre di cui non siamo in grado di individuare la causa genetica, e che quindi non possiamo escludere con procedure come questa (tanto per avere un’idea, solo di malattie rare ne contiamo attorno a 8mila, a fronte di circa 3mila test adeguati a diagnosticarle, e non parliamo poi di tutte le altre patologie esistenti). Se si spaccia uno screening genetico come tecnica risolutiva – tanto che per questo bambino leggiamo che «i più importanti dei suoi geni non nascondono nessuna insidia e così sarà per buona parte della sua vita» –, non ci si lamenti poi quando i veri malati, già nati, si affidano a terapie impossibili, però offerte da certi media come insperatamente promettenti. E c’è dell’altro. Definire un embrione, e quindi il bambino che nascerà, «perfetto» geneticamente, oltre ad evocare sinistri ricordi della nostra storia non proprio remota, implica un’ipotesi di fondo: che sia possibile stabilire quando il patrimonio genetico di una persona sia «perfetto» e tracciare una linea netta per distinguerlo da uno «imperfetto», e su questa base separare le vite «normali» dalle intollerabili. L’esistenza di questi screening implica necessariamente quella di una Schindler’s list alla rovescia, in cui un elenco di patologie individua chi è fuori dalla norma, chi appartiene al gruppo dei patologici, dei disabili, dei "geneticamente imperfetti", di quelli già concepiti ma non ammessi alla nascita. Si obietta che a essere elencate sono solo le malattie più "gravi". Ma una volta scoperta la causa genetica di una malattia, e quindi una volta che si la si può individuare con un test genetico, chi è veramente in grado di misurarne la gravità e stabilire se sia accettabile, distinguendola da quelle che non lo sono? I comitati di dotti, medici e sapienti che compilano queste liste, di fatto già suggeriscono agli aspiranti genitori – e alla società tutta – che i figli è bene siano «geneticamente perfetti», e che non è bene averne se si sa in anticipo che potranno sviluppare malattie, anche in età adulta, o anche se hanno solo la probabilità di ammalarsi a trenta, quaranta anni, di patologie pur curabili. Angelina Jolie – tanto per fare un nome – con questo test probabilmente non sarebbe mai nata, perché il suo Dna, a dispetto delle sue apparenze, è imperfetto, e la sua vita sarebbe stata giudicata indegna di essere vissuta, soprattutto se accanto al suo ci fosse stato un embrione "migliore", senza la sua anomalia genetica. C’è chi ha commentato: «Meglio sani per scelta che malati per caso». Meglio dire le cose come stanno: non si tratta di una scelta effettuata dal soggetto malato, ma da terze persone (genitori e medici). Non si tratta di nascere con la garanzia di essere sani, si tratta di non nascere se non si è (sulla carta) perfetti. E dunque, soprattutto, non si tratta più di medici che operano per curare i malati, ma per selezionare uomini e donne.
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