sabato 21 settembre 2013
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Una volta, parlando di Borges, Jorge Mario Bergoglio citò i versi di un suo sonetto per far comprendere la cifra di quest’autore da lui personalmente conosciuto. Sono i versi di Everness, nella raccolta El otro, el mismo: «Solo una cosa non c’è. È la dimenticanza. / Dio, che salva il metallo, salva la scoria / e segna nella sua profetica memoria / le lune che saranno e che sono state //… E tutto resta… // E tutto è parte del diverso / cristallo di questa memoria». «Qui – mi disse, commentando il sonetto – c’è tutto Borges».Questi versi mi sono tornati alla mente pensando a quanto papa Francesco ha detto nell’incontro con i sacerdoti di Roma: «La memoria è il sangue della Chiesa… Tornate a quella fedeltà di Dio che sempre rimane e ci aspetta… fate memoria del primo amore, Gesù… per me questo è il punto-chiave di un prete innamorato: che abbia la capacità di tornare con la memoria al primo amore». E in questa memoria del «primo amore» c’è tutto Bergoglio. In questa memoria presente del suo personale incontro con Cristo, della sua vocazione, tanto da non dimenticare il momento esatto in cui per la prima volta sentì lo sguardo di Gesù su di lui: era il 21 settembre di 60 anni fa, data d’inizio della primavera nell’australe Cono Sur d’America. Così come ha scritto in una sua personale confessione di fede nel 1969, poco prima di essere ordinato sacerdote e che rileggendola all’inizio del suo pontificato ha detto di sottoscrivere oggi come allora: «Credo nella mia storia, che è stata trapassata dallo sguardo di amore di Dio e, nel giorno di primavera, 21 settembre, mi ha portato all’incontro per invitarmi a seguirlo…».È il suo vissuto, quello di un uomo che sa che cos’è la miseria e il perdono, il peccato e la grazia, che sa cosa significa essere abbracciati dallo sguardo di amore di Dio: «Sono un peccatore al quale il Signore ha guardato», ha detto nell’intervista rilasciata a "La Civiltà Cattolica". Miserando atque eligendo, «e guardandolo con misericordia lo scelse», secondo l’espressione che ha voluto imprimere nel suo motto episcopale, tratto da un’omelia di Beda il Venerabile sulla chiamata del pubblicano Matteo e che è riproposta nell’Ufficio delle letture proprio nel giorno 21 settembre.Certo colpisce questo suo proprio registro anagrafico, nel quale ha voluto inserire la data d’inizio della sua vocazione, che normalmente non figura nei registri e non rientra nelle ricorrenze ufficiali. Un po’ come la data del fidanzamento. Ma la modalità rende limpido che per Bergoglio la vocazione è l’incontro con una persona, del quale ci si può ricordare il giorno, l’ora. Anche rispondendo a Scalfari ha detto: «La fede per me è nata dall’incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza». Perché non c’è niente che non sia personale nel cristianesimo, nel Vangelo. La stessa esperienza degli apostoli, di Giovanni e di Andrea che per primi incontrarono Gesù. Giovanni, ormai vecchio quando scriveva il suo Vangelo, ricordava anche l’ora: «Erano circa le quattro del pomeriggio…». Così questo incontro per papa Francesco apre a tutti, e questa data dell’incontro è diventata un inno alla misericordia, quella misericordia che ha segnato la sua vocazione, la sua ordinazione ed è la ragione stessa del suo ministero che vive anche adesso come testimone.In questi sei mesi di pontificato è un prete, anzitutto, quello che tutti abbiamo visto nei gesti e ascoltato nelle parole. L’essere sacerdote è il cuore della sua identità, di come egli stesso semplicemente si percepisce. Glielo hanno chiesto i sacerdoti romani: «Lei ora come si definisce?...». «Ma, io mi sento prete, davvero. Io mi sento prete», ha risposto, confermando quanto ripete la dottrina che il sacerdozio «imprime il carattere». Si può dire che è questa la vera cifra del suo magistero, del suo pontificato. Ed è quindi anche evidente che uno dei punti su cui si accentra e continuerà ad accentrarsi l’attenzione di papa Francesco nel suo ministero di vescovo di Roma è proprio la cura dei sacerdoti, del rapporto con loro. Un aspetto che aveva caratterizzato il suo episcopato a Buenos Aires, dove i sacerdoti potevano avere accesso a lui in qualsiasi momento. La necessità di questa vicinanza nella carità l’ha rimarcata adesso al clero di Roma: «Noi vescovi dobbiamo essere vicini ai preti, i più prossimi al vescovo sono i preti… Vale anche il contrario: il più prossimo è il mio vescovo… È bello questo scambio…».
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