venerdì 3 aprile 2015
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La tragedia di Garissa, in Kenya, dove gli shaabab islamisti arrivati dalla Somalia hanno attaccato un campus che ospita quasi mille tra studenti e professori e ucciso quasi 150 studenti indifesi, ripropone tutte le angosce più tipiche di questo nostro tempo. La difficoltà di proteggersi rispetto a chi vuole a ogni costo colpire gli innocenti e i luoghi del sapere e dell’istruzione (come ci dimostra il fatto che il Governo keniano avesse comunque lanciato, nei giorni scorsi, un allarme a proposito delle università). La gestione delle frontiere, spesso insuperabili per chi soffre ma permeabili agli agenti del terrore. L’odio implacabile per l’identità e l’umanità dell’altro, rappresentato nel rito atroce delle decapitazioni, che ci risulta impossibile da comprendere e quindi arduo da prevenire. E anche l’idea del "nemico tra noi", che dopo la Francia dei fratelli Kouachi e l’Italia dei reclutatori arrestati, potrebbe investire il Kenia, se fosse vero che la mente dell’attacco è il ricercato Mohamed Kuno, ex docente nel campus della strage.Sono, da anni, i nostri incubi quotidiani, amplificati dalla velocità con cui le informazioni e le immagini si diffondono sul pianeta. Proprio per questo, però, diventa di giorno in giorno più insopportabile la cappa di silenzio che grava tuttora sul problema dei problemi: la crescita esponenziale delle persecuzioni per ragioni di fede e, dentro questa tendenza, il martirio incessante dei cristiani, di gran lunga i credenti oggi più discriminati al mondo.Risale a sole due settimane fa la strage nelle chiese di Lahore, in Pakistan. È di queste ore il dramma degli studenti in Kenya. L’attacco dei terroristi somali, inoltre, è stato condotto con l’ormai consueto tratto di particolare crudeltà. I terroristi hanno badato a dividere gli ostaggi musulmani da quelli cristiani: i primi sono stati liberati, gli altri decimati o presi prigionieri. Per i cristiani, insomma, è l’ennesima Pasqua di passione, l’ennesima croce da portare. Con la fede quale unico sostegno e consolazione.Tutti i più seri e accreditati centri di studio, infatti, confermano che l’accanimento contro i cristiani è tratto tipico degli ultimi decenni. Secondo il "Pew Research Center" di Washington, i cristiani sono discriminati in 139 Paesi, ovvero in circa il 75% dei Paesi ufficialmente riconosciuti. Offese, minacce, emarginazione sui luoghi di lavoro, espropri, torture, uccisioni di massa. Come appunto in Pakistan e in Kenya in questi giorni, o come in Siria e in Iraq negli ultimi anni. E a questo proposito: non tutti i Paesi persecutori sono musulmani, ma comunque lo sono 41 dei 50 Paesi in cui essere cristiano è più pericoloso. Un dato che non può più essere ignorato.Eppure, la mobilitazione internazionale intorno a questa realtà è quasi nulla. Come se i nostri Paesi, molto impegnati nella discussione sul punto fino a cui estendere i diritti "loro", avessero perso di vista la soglia minima dei diritti degli altri, a cominciare da quello di praticare liberamente la propria fede. Eppure nella persecuzione dei cristiani, come anche i meri dati statistici dimostrano, sta una delle chiavi per affrontare e risolvere, oppure per subire e lasciar incrementare, la vera emergenza del nostro tempo. Sarà impossibile, infatti, costruire un sano rapporto con il mondo islamico senza sciogliere questo nodo. Né avrà senso (e infatti non l’ha avuto) la pretesa di portare la democrazia o il nostro stile di vita se prima non avremo chiarito, anche a noi stessi, che cosa significa in concreto e che cosa comporta in realtà ciò che vogliamo esportare.Non è un caso se, laddove l’occidente è intervenuto in questi anni, la situazione è poi peggiorata. A partire proprio dalla discriminazione violenta dei cristiani che, in larghe parti dell’Asia, del Medio Oriente e dell’Africa sono il più affidabile barometro sociale. Possiamo anche provare a ignorare questo nodo terribile e duro, così come i nostri politici e i mass media hanno fatto sinora. Ma allora dovremmo rassegnarci a passare da una crisi all’altra, in una ingiustificabile complicità con l’orrore.
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