domenica 24 luglio 2016
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Quella sera di sangue in un ricco cuore d’Occidente Guardi le immagini del terrore a Monaco, leggi l’età delle giovani e giovanissime vittime, poi vedi la foto dell’assassino: è la faccia ancora quasi infantile di un adolescente sofferente. Diciotto anni, figlio di un tassista e di una commessa, un passato di bambino maltrattato dai compagni, e un libro sul comodino: La follia in testa, perché gli studenti uccidono. Dunque Ali Sonboly capiva che il progetto che andava covando era delirante, e già questo è un segno di lucidità; un altro è di avere cercato di attirare con astuzia gli ex compagni di scuola nel McDonald’s della sparatoria, con un messaggio su Facebook. Un preciso, efficiente disegno maturato in giorni solitari e portato a termine con determinazione. E però siamo tutti, sui media e fra noi, a parlare semplicemente di 'follia'. Follia? Sonboly era in cura per depressione, che non è necessariamente un fatto psicotico, e lo era al pari di un gran numero di persone che grazie a Dio non compiono alcuna strage. E c’è qualcosa di autoliberatorio, di assolutorio nel modo in cui, con comprensibile sollievo, esclusi rapporti dell’assassino con il Daesh, ci diciamo: infine, era semplicemente un pazzo. Quasi volendo eclissare un’altra e almeno possibile concorrente causa di una violenza come quella di Monaco: l’odio, razionalmente e meticolosamente coltivato. La libertà di scegliere il male. Ipotesi che, prima ancora di ogni militanza ideologica, può reggere anche nella storia dell’assassino di Nizza. L’odio covato e alimentato che diventa un mostro interiore, cui poi, quando è maturo, si può anche aggiungere un nome, una sigla; l’odio, che squilibra la persona e la divora. Che si alimenta, nel vedere che altri agiscono nella realtà la violenza a lungo immaginata. Come se una nuova strage avesse il potenziale di generare emulazione, e un altro, sconosciuto, fra i milioni che guardano, quasi da quel sangue si sentisse sfidato, e dicesse: sono capace anche io. La strage di Monaco viene associata con quelle di Utoya per la coincidenza della data, il medesimo giorno di luglio, ed è possibile che per il ragazzo di Monaco il norvegese Breivik fosse un modello, o un dio, da seguire. Tuttavia a noi questo adolescente vessato, frustrato, ansioso di vendetta, fa venire in mente anche il giovane pilota della Lufthansa che, volendo suicidarsi, precipitò a terra con tutti i passeggeri del suo volo. Andreas Lubitz era infelice perché non sarebbe diventato il pilota di rotte oceaniche che voleva essere, e la frustrazione ha sortito un odio micidiale. Non gli bastava morire, voleva che anche chi gli era attorno morisse con lui. Non si toglieva la vita, come alcuni, chiedendo scusa del proprio fallimento, ma voleva che, attorno a lui, finisse il mondo – almeno quello che gli riusciva di portare con sé.
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