venerdì 3 maggio 2024
La decisione di superare le classi speciali ha ragioni fortemente pedagogiche, e quindi civili. Il disabile non è il suo deficit, ma è una persona
Bimbi insieme in una scuola italiana

Bimbi insieme in una scuola italiana - Fotogramma

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Ero a Bruxelles per una ricerca internazionale, nel fervore della discussione una collega tedesca, dirigente di un’importante associazione di persone con sindrome di Down, puntò l’indice verso di me e di fronte a tutti i colleghi proferì queste parole: «Voi Italiani, mi raccomando, continuate a lavorare bene, perché siete il faro del mondo sull’inclusione». Illuminare i percorsi per cercare di condurre in porto l’inclusione è assumersi una grande responsabilità, ma non di meno è un dovere perché nessun altro Paese al mondo ha oltre 50 anni di esperienza inclusiva come il nostro. Nel 1971, infatti, politici illuminati favorirono la promulgazione di una legge, la 118, che aprì le porte delle nostre scuole a coloro che fino ad allora erano relegati in istituzioni chiuse, emarginati in scuole appositamente ideate per loro: le cosiddette scuole speciali. Agli inizi degli anni ‘70 in si contavano circa 1.400 scuole speciali e circa 8.000 classi differenziali con oltre 40.000 persone con disabilità rinchiuse in istituti.

Perché la scelta inclusiva? Il motivo è fortemente pedagogico, e quindi civile. Il disabile non è il suo deficit, non si identifica con la sua cecità, con la sua sordità, con il suo autismo o il suo problema fisico, ma è una persona e come tale – diceva Rosmini – «non ha il diritto ma è il diritto». Ossia ha una dignità umana che non è elargita dagli altri ma è in sé proposta a tutti perché nasce con lei in quanto persona fatta a immagine di Dio. Con l’apertura delle nostre scuole alle persone con disabilità abbiamo dato attuazione anche all’articolo 3 della nostra Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

Ma anche all’articolo 34: «La scuola è aperta a tutti». Questi due articoli fondano il concetto di inclusione, lo innervano sottolineando il diritto alle pari dignità e il dovere di accettare nella scuola proprio tutti, compresi coloro che a causa di condizioni personali hanno bisogno di più aiuto e di più competenza.

Se guardiamo con occhi attenti e sereni a questi lunghi anni, constatiamo che il cammino effettuato non è stato vano e che quella scelta si impose con tutto il suo valore contribuendo a modificare l’intera scuola italiana in tutti i suoi aspetti pedagogici e didattici. La presenza nelle classi dell’allievo con disabilità ha provocato, negli insegnanti, la ricerca di un nuovo modello educativo didattico, capace di soddisfare i bisogni di tutti gli allievi presenti in aula. La scuola ha imparato – e dove si lavora bene ciò è ben documentato – ad accogliere la persona con deficit, a dialogare con medici, psichiatri e specialisti della riabilitazione, innestando un processo di costruzione unitaria di percorsi educativi e riabilitativi e di comunicazione multidisciplinare e plurispecialistica, grazie anche alla legge 104 del 1992. Dove si lavora bene l’inclusione ha favorito quell’apertura al territorio che ha dato sviluppo all’interesse educativo verso l’esperienza concreta, valore aggiunto per ogni processo formativo finalizzato a preparare alla vita. Ha costretto gli insegnanti a promuovere un cambiamento radicale nel modello didattico tradizionale, quello cattedratico, e soprattutto nei cicli inferiori si sono notate innovazioni metodologiche molto interessanti. Ha aumentato il benessere degli allievi poiché l’interesse verso la persona “educanda” è diventato l’aspetto primario del lavoro degli insegnanti. Ha favorito l’abbattimento di un altro muro del nostro modello scolastico, l’incomunicabilità fra docenti: gli insegnanti non possono più vivere la loro professione come monadi isolate, hanno compreso che si opera in modo competente e significativo solamente programmando in gruppo e operando in modo condiviso anche con gli allievi, non unicamente all’interno di una classe ma più globalmente a livello di plesso scolastico.

Soprattutto però abbiamo capito che l’inclusione non solo è possibile per il bene degli stessi alunni con disabilità ma è un valore inestimabile per tutti, perché dove si lavora bene è lo stesso compagno o compagna priva di deficit che trova giovamento nella presenza costante e significativa di un compagno con disabilità. D’altronde il risultato più eclatante che possiamo porre all’attenzione di tutti è l’esperienza esaltante di molti studenti con disabilità e con Dsa che si iscrivono all’università: sono 36.816, pari al 2,13% del totale degli studenti iscritti agli atenei italiani, secondo l’ultima rilevazione Anvur, e che poi si laureano. Prova evidente che l’inclusione non solo è possibile ma è la strada maestra per dare risposte formative a tutti.

L’inclusione non è negoziabile: è una conquista pedagogica e civile fondamentale, per rendere gli uomini più uomini e le donne più donne.

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