martedì 30 aprile 2024
Indagine delle Acli: il 20,9% delle occupate stabili ha un reddito sotto i 15mila euro annui (il 6% per gli uomini). Chi vive nelle aree interne in media guardagna oltre 3mila euro in meno
La condanna del lavoro povero: più a rischio le donne e le regioni del Sud
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Il lavoro povero in Italia tende a essere una condizione «persistente». Un tunnel in cui, una volta che ci si è scivolati dentro, diventa un’impresa ardua uscirne fuori e tornare a rivedere la luce. Un’emergenza che colpisce in particolare le donne e, a livello geografico, alcune aree del Centro e, soprattutto, le Regioni del Mezzogiorno. A scattare una fotografia nitida su quanto siano diffusi i cosiddetti working poor, i lavoratori poveri appunto, è una ricerca a cura dell’Iref (Istituto di ricerche educative e formative), grazie ai dati forniti dai Caf Acli. L’indagine è stata presentata in vista della festa del 1° maggio in un webinar organizzato da Avvenire e dalle Associazioni cristiane lavoratori italiani: “Povero lavoro, povero Paese: invertire la rotta è possibile”.

Proprio per il fatto che i dati emergono dalle dichiarazioni dei redditi dei contribuenti che si sono rivolti ai Caf delle Acli (una mole di oltre 294mila dichiaranti occupati analizzati che hanno presentato i 730 continuativamente dal 2019), si tratta di statistiche molto attendibili. In generale, i lavoratori “continui” (attivi almeno 7 mesi su 12) che si trovano sotto la soglia di povertà relativa sono passati dal 9,6% del 2020 all’8,8% del 2023, facendo segnare appena un -0,8%. Nell’Italia che ha visto un progressivo aumento dei posti di lavoro dal post Covid (+700mila dal 2019), insomma, l’impoverimento del lavoro è una criticità ancora lontana dall’essere superata. Lavorare, a volte, non dà abbastanza per garantirsi una vita dignitosa.

Ovviamente chi non ha continuità lavorativa ha molte più possibilità di vivere in povertà: il 69% dei lavoratori con un numero di giornate lavorative inferiori ai 210 giorni ha un alto livello di vulnerabilità economica. Per contro, l’88% di chi lavora per più di sette mesi in un anno dichiara un reddito complessivo superiore ai 15mila euro annui, mostrando quindi un basso livello di vulnerabilità economica. Non è detto, tuttavia, che la stabilità occupazionale renda immuni dalla condizione diworking poor. Tra i lavoratori “continui” il 6% degli uomini ha un reddito al di sotto dei 15mila euro annui. E la percentuale sale al 20,9% per le donne. Eccola, dunque, la disparità di genere.

Le differenze sono evidenti anche sul piano territoriale. I lavoratori continui sopra i 15mila euro di reddito variano dal 78,6% della Sicilia al 90% della Lombardia, per esempio. Non solo: sempre tra i lavoratori “continui” vivere nelle zone urbane o nelle aree interne comporta una differenza di reddito media di oltre 3mila euro annui (31.648 euro per i primi contro 28.548). In pratica, abitare lontano – e probabilmente lavorare distanti – da poli di attrazione economica accresce la possibilità di avere retribuzioni inferiori.

Nel complesso, i dati della ricerca Iref-Caf confermano quanto l’Ocse ha segnalato più volte nei suoi report recenti: l’Italia è uno dei Paesi sviluppati dove i salari reali sono diminuiti di più negli ultimi anni. L’impennata dell’inflazione ha portato a un’erosione consistente del potere d’acquisto. Guardando solo al periodo 2019-2022, nell’insieme delle fasce di reddito dei lavoratori continui si calcola una perdita di 1.857 euro (4.853 euro d’inflazione contro 2.996 di aumento delle retribuzioni).

Per contrastare la diffusione del lavoro povero le Acli hanno presentato una serie di proposte in vari ambiti: dal fisco all’istruzione. Per Emiliano Manfredonia, presidente nazionale delle Acli, questa ricerca dimostra che c’è ancora «tanta occupazione con bassi salari o poche ore lavorate, soprattutto per quanto riguarda le donne».

Secondo Stefano Tassinari, vicepresidente nazionale delle Acli con delega al Lavoro e al Terzo settore, sono necessarie, per esempio, politiche inclusive: «Si torni a un reddito minimo per tutte le famiglie in povertà assoluta e, insieme, si creino delle “Case del lavoro” nelle e delle comunità con una co-programmazione tra Comuni, centri per l’impiego e Terzo settore, per favorire una reale crescita delle politiche attive nel territorio e l’inserimento delle persone più vulnerabili o con disabilità». Sull’immigrazione, inoltre, «serve una politica regolare, non sporadica ed emergenziale, di accoglienza e integrazione». Sulle imposte, infine, oltre a un vero contrasto al sommerso, prevedendo una maggiore tracciabilità del denaro, «si bocci la deriva politica che premia la rendita e la speculazione e carica tutto su lavoro e pensioni». Perché la lotta al lavoro povero passa inevitabilmente anche da un cambio di rotta sul fisco.

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