venerdì 3 maggio 2024
Quattro nuovi saggi muovono dal "Vangelo secondo Matteo” e dal film mai realizzato su san Paolo. Una rilettura del poeta cineasta che arriva alla definizione, quanto mai attuale, del male assoluto
Pasolini e Irazoqui sul set del "Vangelo secondo Matteo"

Pasolini e Irazoqui sul set del "Vangelo secondo Matteo" - Domenico Notarangelo / WikiCommons

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«Io so...». Io so che Pier Paolo Pasolini è sempre più attuale per una ragione molto semplice: perché il più visionario e preveggente degli intellettuali italiani del secolo scorso in questi cinquant’anni di assenza forzata (ce l’ha strappato via un omicidio, forse di Stato, il 2 novembre 1975) si è trasformato nel “Pazzariello” della sua amica, visionaria della letteratura, Elsa Morante. La lucida pazzia pasoliniana risiede nella sua libertà di pensiero e in quella poetica essenziale del Trasumanar e organizzare. La raccolta di poesie, pubblicata da Garzanti nel 1971, in cui spiega che quel titolo è l’espressione con cui «voglio dire che l’altra faccia della trasumanizzazione, ossia dell’ascesa spirituale è proprio l’organizzazione. Nel caso di san Paolo, l’altra faccia della santità, del rapimento al “terzo cielo” è l’organizzazione della chiesa». Questo stralcio riportato nel saggio di Guido Santato Studi e letture. Pasolini oggi (Carocci, pagine 225, euro 25,00) ci porta nei territori spirituali dell’intellettuale eretico, scandalosamente religioso pur professando il suo ateismo, dubitante.

Tutte le domande sul mistero della fede in Gesù, il poeta di Casarsa se le pose girando Il Vangelo secondo Matteo. Un film, uscito nelle sale nel 1964, che direttamente dal suo Sasso antropologico materano, è andato a rivederselo in ogni frammento don Michele La Rocca, autore del brillantissimo La dimensione del sacro nel film “Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini” (Editrice Bmg Matera, pagine 188, euro 22,00). Il sacro e il rivoluzionario per Pasolini al centro dell’indagine di La Rocca. Il Vangelo secondo Matteo si apre con questa citazione: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra: non sono venuto a portare pace, ma una spada”. Quello spirito da combattente a difesa delle sue ferree convinzioni civili, Pasolini lo dispensa cinematograficamente in quella che definisce «sacralità della tecnica» e poi per una corretta interpretazione del film rimanda a Una discussione del ’64 e Marxismo e Cristianesimo. La sua opera artistica si fa politica invocando la costruzione di un ponte che riteneva possibile, oltre che necessario, tra marxisti e cristiani.

Dall’autore delle Ceneri di Gramsci però doveva emergere anche il percorso straziante di una famiglia votata al “martirio”. Il primo, quello del fratello, il partigiano Guido trucidato a vent’anni a Porzûs, per mano dei partigiani delle Brigate Garibaldi. E poi il suo, il sacrificio di un intellettuale scomodo a tutti, che proiettò la sua fine nella crocifissione del Cristo. Sessant’anni fa mentre lavorava febbrilmente al Vangelo, l’industria cinematografica puntava già da un pezzo al gigantismo produttivo e al divismo attoriale. Ma Pasolini, che visse d’arte sempre in direzione ostinata e contraria, affidò il ruolo di Gesù a un giovane catalano, il militante antifranchista Enrique Irazoqui, che «non si era mai sognato di fare del cinema». Così come mai sua madre, Susanna, si sarebbe immaginata di recitare sotto la croce nei panni di Maria anziana. Molto più egocentrici e spontanei nel far parte del cast furono invece i suoi amici di “lettere” chiamati a raccolta: Natalia Ginzburg (Maria di Betania), Enzo Siciliano (Simone di Canaan), Alfonso Gatto (Andrea), Francesco Leonetti (Erode). Una piccola antologia della nostra letteratura raccolta davanti alla macchina da presa del poeta che sotto «la croce ha voluto vedere lo stesso pianto della madre per un figlio crocifisso e perseguitato dal mondo contemporaneo che mai l’ha capito». Annota ancora La Rocca: «Il Cristo di Matteo si presenta dolce ma al contempo violento, ribelle e arrabbiato. L’opposto di quel “Cristo” che muore in croce interpretato da Stracci (Mario Cipriani) ne La ricotta: remissivo e totalmente ignorato dai presenti». La morte di Cristo sulla croce per Pasolini rappresenta l’inizio della storia degli uomini: l’inizio della storia vera, di una umanità tanto antica quanto arcaica pronta a generare una nuova epoca».

Appena concluso il progetto del Vangelo nella mente di Pasolini c’era il seme di una nuova sfida cinematografica: il film su san Paolo. Correva sempre il 1964 quando scrive a don Giovanni Rossi della Pro Civitate Christiana di Assisi rivelando la sua completa identificazione nell’uomo di Tarso: «Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo e un mio piede è rimasto imbrigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio». Parole dure, così come dura, dolorosa quanto sofferta fu poi la gestazione per un film mai nato. Si intitola infatti Il sogno di Pier Paolo Pasolini. La sceneggiatura incompiuta del suo filmsu san Paolo (San Paolo, pagine 160, euro 18,00) il saggio in cui Carlotta Ciarrapica e Andrea Bizzozzero ripercorrono i tentativi reiterati e il disaccordo tra il regista e la San Paolo Film che alla fine non riuscirono a realizzare quello che, forse, più degli appunti sparsi di Petrolio (la sua opera postuma) sarebbe potuto diventare un capitolo definitivo, quanto sferzante, per le coscienze del nostro popolo, anestetizzato da quella politica malsana che da allora ci governa.

Pasolini desiderava raccontare il suo san Paolo predicatore che dialoga con la società industrializzata e borghese partendo dai “viaggi apostolici” che nel film gli avrebbe fatto compiere nell’Europa e nell’America, della fine degli anni ’30 e fine anni ’60. Un viaggio in cui intendeva dimostrare la tesi fondante di un’umanità che aveva definitivamente perso ogni relazione con il “sacro”, a sua volta sacrificato sull’ara edonistica del capitalismo, vittima e dei nuovi totalitarismi che il poeta sentiva avanzare prepotentemente andando a porre il suo nome sulla lapide dei caduti dell’ultima Resistenza. «La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto», scrive amaro Pasolini dieci anni dopo Il Vangelo secondo Matteo. Nel ’74, fanno notare Ciarrapica e Bizzozzero, che ormai la Resistenza è dimenticata e sta sfumando anche quell’ultimo atto rivoluzionario pasoliniano di dar corpo e voce al suo alter ego san Paolo per denunciare quei fascismi che in nome della nuova cultura di massa hanno distrutto la civiltà contadina con la sua cultura millenaria e la «vera tradizione umanistica», inscenando «una finta rivoluzione di destra alla quale hanno però acconsentito anche le sinistre per non restare fuori dai giochi di quel mondo nuovo che la modernità». In ogni riga, vergata con il proprio sangue, Pasolini ha denunciato quella “banalità del male” che Miria Burani e Stefano Ferrari hanno rintracciato nell’eccidio di Monte Sole. La madre dello stragismo perpetrato sul suolo italico resta la strage di Marzabotto, che con i suoi 800 morti e i tre sopravvissuti (Ferruccio Laffi, Franco Fontana e Lina Marzadori) intervistati dagli autori, diventa il punto di partenza di Pasolini e Marzabotto. Il prezzo da pagare (Compagnia editoriale Aliberti, pagine 190, euro 17,00). Il conto finale Pasolini lo presenta con Salò e le 120 giornate di Sodoma, forse l’opera meno riuscita della sua filmografia, che divenne il preludio alla discesa agli inferi e il baratro personale culminato nel suo assassinio. «Voleva fare un film sulla morte, sulla violenza, sulla complicità fra il carnefice e la vittima, assoluto e tremendo», ricorda Pupi Avati che collaborò alla sceneggiatura di quell’ultimo disperato, quanto mai scandaloso, tentativo pasoliniano di ridefinire i confini del male assoluto che sono gli orrori della guerra. «Le immagini che vengono dall’Ucraina sono le Marzabotto di oggi», dice dal pulpito il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di quella Bologna che ha formato intellettualmente Pasolini che, universitario, nel ’43, scriveva all’amico Franco Farolfi: «La guerra non mi è mai sembrata schifosamente orribile come ora, ma non si è mai pensato cos’è una vita umana?». La risposta da Kiev alla Striscia di Gaza, purtroppo è no. Pasolini nella sua poesia Al principe scrisse: «Questo nostro mondumano che ai poveri toglie il pane, ai poeti la pace». Zuppi in chiusura a Marzabotto e Pasolini ci ricorda che bisogna «credere che la pace sia sempre possibile, difficile, ma possibile».

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