Vita

Utero in affitto. Maternità surrogata, una partita europea

Marcello Palmieri giovedì 5 maggio 2016
Quando si parla di maternità surrogata, Italia ed Europa sono perfettamente allineate. Nel senso che un po’ ovunque nel continente si fronteggiano due opposti schieramenti: quello abolizionista, teso a rendere la pratica illegale o comunque sempre più difficile, e quello interventista, preoccupato di regolamentarla. L’argomento è spinoso, e lo dimostrano anche i fatti di ieri: la discussione delle mozioni presentate da tutte le forze politiche e il gioco al ribasso in cerca di convergenze. D’altronde anche nel principale partito italiano, il Pd, quando arriva l’utero in affitto affiorano profonde divergenze. Martedì la deputata Michela Marzano ha dichiarato di non condividere la mozione tesa a far diventare la surrogazione di maternità (anzi: «gestazione per altri» o Gpa, come vuole sia chiamata) reato universale. Di contro, la collega Eleonora Cimbro si è espressa in termini opposti, definendo la pratica un «capriccio egoistico». Se dal fronte politico si passa a quello giuridico la situazione non cambia. È vero che l’utero in affitto è vietato dalla legge 40. Ma più sulla carta che nei fatti, perché chi vuole concepire in provetta e poi pagare una gestante per avere un bimbo basta che vada all’estero, in un Paese che ammette cataloghi pubblicitari di madri a pagamento, fornitori di sperma e venditrici di ovociti, e dar corso a quello che a tutti gli effetti è un contratto commerciale. Vero: quando poi rientra in patria, è molto probabile che finisca davanti a un tribunale. Ma anche in questi casi i giudici hanno già detto tutto e il contrario di tutto. Basti pensare alla Cassazione: nel novembre del 2014, confermando una precedenza sentenza che aveva disposto l’allontanamento di un bimbo dai genitori "paganti", si era premurata di chiarire che l’ordinamento italiano non può riconoscere gli effetti della maternità surrogata. La stessa Corte però, il mese scorso, non solo ha confermato l’assoluzione penale di altri "committenti" ma ha pure sancito la trascrivibilità nell’anagrafe comunale del certificato di nascita estero che li indicava come genitori: l’esatto opposto di quanto statuito un anno prima. La situazione è paradossale, ma non così diversa da quanto accade in altri Paesi europei che vietano la surrogazione. Per esempio in Francia. Lì, a bandire – o a tentare di farlo – questa forma di sfruttamento della donna è il Codice civile. Che pure chiarisce come questa pratica sia contraria all’ordine pubblico, vale a dire contrastante non con una semplice legge ma addirittura con i princìpi fondamentali dell’intero ordinamento giuridico. Ebbene, in gennaio applicando questa norma il prefetto di polizia di Parigi aveva rifiutato il passaporto a tre bimbi "surrogati". Ma il tribunale amministrativo della capitale ha ingiunto che fosse iniziata la pratica di rilascio, disponendo che lo Stato risarcisca per il disguido i "committenti" dei piccoli. Tutto ciò accade nello Stato e nella città in cui la femminista Syilviane Agacinski, il 2 febbraio, ha riunito la prima conferenza mondiale per l’abolizione universale della maternità surrogata. E in cui la Manif pour tous, prendendo spunto da una campagna di affissione spagnola contro i maltrattamenti degli animali, ha da poco rilanciato l’attenzione sullo sfruttamento delle donne come incubatrici seriali. Contraddizioni evidenti, da cui non è immune neppure la Germania. Qui le leggi vietano la gestazione per altri, ma l’Alta corte – con una sentenza di fine 2014 – ne ha riconosciuto gli effetti. Per la verità, i giudici hanno premesso che non si può rinunciare per contratto alla maternità naturale, per poi specificare però che ciò vale solo all’interno dello Stato. Tant’è vero che, nel caso specifico, ha ordinato il riconoscimento genitoriale di una coppia gay che aveva affittato un utero in California. Il motivo? Tutto si era svolto secondo la legge di quell’ordinamento, e la Germania doveva rispettare la pronuncia statunitense. Tutta questa confusione politica e giudiziaria non può che riflettersi sulle istituzioni europee. Lo scorso dicembre, approvando il Rapporto annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo, il Parlamento di Strasburgo aveva apertamente condannato la maternità surrogata: «Mina la dignità della donna», si legge nel documento, usando «le sue funzioni riproduttive come una merce». Da qui, l’invito a trattarla «come questione di urgenza negli strumenti per i diritti umani». Pronunciamento più che chiaro, tant’è che il cosiddetto Rapporto De Sutter – presentato il 15 marzo alla Commissione affari sociali del Consiglio d’Europa, nel tentativo di proporre agli Stati una regolamentazione della pratica "in positivo" – è stato bocciato. La proponente, una senatrice belga transgender dichiarata, responsabile del Dipartimento di medicina della riproduzione (una delle quattro cliniche belghe in cui si pratica la gravidanza per altri), non si è data per vinta: due settimane fa ha ripresentato l’identico "studio", cambiandogli solo il titolo. Certo: chi aveva votato "no" a marzo non è caduto nella trappola, e il blitz è fallito. Ma, complice questa confusione, sono in molti a temere altri colpi di mano da qui al 2 giugno, quando il Rapporto dovrà tornare in Commissione in una nuova stesura. <+copyrighte>