Vita

Belgio. «Io, figlia dell'eterologa, cioè usata»

Giulia Mazza giovedì 3 dicembre 2015
Un prodotto del supermercato a cui è stata tagliata via l’etichetta. È così che Stephanie Raeymaekers, 36 anni, definisce se stessa e quanti, come lei, sono “figli dell’eterologa”. La scoperta sul suo concepimento avviene a 25 anni, per caso. Da qui, la decisione di cercare il suo padre biologico: una missione impossibile, perché il Belgio, dov’è nata, vieta per legge di rintracciare i donatori di seme. Ciò non le impedisce di portare avanti la sua battaglia a difesa dei diritti dei bambini creati attraverso l’eterologa o l’utero in affitto, “la nuova frontiera dello sfruttamento”. Per farlo ha creato un’associazione, Donorkinderen (“figli dei donatori”).La sua storia inizia con un uomo e una donna, i suoi genitori, che voglio disperatamente avere un figlio. «Dopo otto anni di tentativi, mio padre è stato dichiarato sterile». Si rivolgono a uno specialista della fertilità, che nel 1978 li sottopone a trattamento per inseminazione artificiale, attraverso la prima Banca del seme ufficiale del Belgio. Un’unica condizione: non raccontare mai la verità se fossero riusciti a concepire un figlio. Nel gennaio del 1979 nascono Stephanie e i suoi due gemelli, Bernard e Sophie. Tre anni dopo arriva un quarto figlio, concepito naturalmente. «Per mio padre – rivela – è stato uno shock. Si sentiva tradito da mia madre e dal medico». L’infanzia e l’adolescenza sono difficili. «Ho sempre avvertito una certa distanza con mio padre, non riuscivamo a creare un legame. Quand’eravamo piccoli, pensavamo non fossimo abbastanza bravi o intelligenti per meritarci il suo amore, come se ci fosse qualcosa di sbagliato in noi». Il peso di anni di bugie si abbatte sulla famiglia quando una zia non riesce più a mantenere “il segreto”. Gli equilibri saltano, per tutti. «Quando scopri una cosa del genere tardi, vivi una crisi d’identità. Ti guardi allo specchio e non ti riconosci». A questo si aggiunge il capire che i tuoi genitori ti hanno mentito. «Mia madre si è giustificata dicendo di aver solo seguito il consiglio del medico, di non averci pensato su. Mio padre ha detto di sentirsi sollevato, perché non era più obbligato a fingere. Non riusciva ad accettarci. Ha cancellato me, mia sorella e mio fratello dalla sua vita». Le sue parole, ammette, «mi hanno ferita, ma ora sono cresciuta. Cerco di lasciare il passato per quello che è ed essere il miglior genitore possibile per i miei figli». Resta però la rabbia nei confronti di un sistema che «è cieco dinanzi alle conseguenze di un’industria che vende e crea esseri umani in questi modi». Per Stephanie il diritto a diventare genitore, rivendicato da chi sostiene fecondazione eterologa e utero in affitto, «è un diritto auto-proclamato, in nome del quale si causa un’ingiustizia ancora più grande sui bambini che vengono prodotti». L’industria della fertilità «si concentra sui risultati a breve termine, rifiuta di prendersi responsabilità, affermando di offrire solo quello che i clienti vogliono. Ma dopo la gravidanza c’è un bambino, un essere umano che cresce ed è costretto a sopportare le inevitabili implicazioni del modo in cui è stato creato. È per questo che la fecondazione eterologa o la maternità surrogata sono così assurde: infliggiamo intenzionalmente della sofferenza sulle persone prima ancora che siano nate. Dov’è il senso, la logica o l’amore in tutto questo?».