Vita

Politiche sanitarie. Quel paziente costa troppo, bisogna scartarlo

Emanuela Vinai giovedì 5 giugno 2014
Ciò che non è più economicamente vantaggioso mantenere va scartato. La dura legge del mercato si applica inesorabile a ogni settore, anche il bene più prezioso: la vita e la salute. Se l’economia è il modo di operare volto a ottenere il massimo vantaggio con il minimo dispendio di energie e di risorse, ecco che in epoca di crisi procedere per tagli orizzontali appare il sistema più rapido per risollevare i conti. Ma non è affatto il più indolore. Se si risparmia sulla vita, che ne è del resto? Papa Francesco in più occasioni ha richiamato l’attenzione sulla «cultura dello scarto», di cui sono vittime le persone più fragili della nostra società, unite dal comune denominatore di essere ai margini della vita produttiva: anziani, malati, disabili, bambini, nascituri. Mentre si parla di un nuovo dibattito per una legge che regoli fine vita e alleanza terapeutica, alcune notizie di questi giorni fanno pensare, più che all’esercizio della compassione, al criterio prevalente del contenimento di costi. Cominciando magari dagli anziani: sempre più numerosi, per l’allungamento della vita media, sempre più bisognosi di assistenza e cure costose, sempre più soli nell’inverno demografico e nella disgregazione dei nuclei familiari. Collocata su questo sfondo, suona più che allarmante la notizia dell’incremento esponenziale nell’ultimo anno dei casi di eutanasia in Belgio: +26,8% rispetto al 2012, quando gli eventi registrati erano stati 1.432. Le cifre lasciano poco spazio all’immaginazione: 1.816 "morti assistite" nel 2013, pari a 150 al mese, 5 al giorno. Di questi, più della metà (53,5%) riguarda la fascia d’età 70-90 anni, il 21% i 60-70 anni, il 7% gli over 90. Sommando le percentuali si raggiunge uno sconcertante 80% di eutanasie su pazienti anziani: coincidenza? In Inghilterra fa molto parlare il «Liverpool care pathway for the dying patient» (Lcp), le linee guida che indicano come accompagnare alla morte i malati in fin di vita. È un documento adottato in quasi tutti gli ospedali del Regno Unito e prevede per alcuni malati una terapia a base di sedativi che termina con la sospensione di idratazione e alimentazione. I dati rivelano come un quarto dei letti d’ospedale sia occupato da malati terminali che, se portati alla morte «in modo dignitoso» (ovvero interrompendo cure costose), garantirebbero al sistema sanitario nazionale inglese un risparmio superiore al miliardo di sterline. Non solo: uno studio ha reso noto che nel 4-6% dei casi i familiari non vengono informati della decisione di inserire un paziente nel protocollo, trovandosi così a fronteggiare un decesso anticipato. In Italia nei prossimi anni assisteremo a un incremento costante della popolazione anziana: nel 2030 il 30% degli italiani sarà costituito da over 65. A questo si aggiunge la previsione di un incremento significativo dei casi di tumore. Ma le risorse a disposizione diminuiscono e il carico dell’assistenza sanitaria e sociale, soprattutto in campo oncologico, si fa più pesante. Da quanto emerso in questi giorni nel 50° Congresso dell’«American Society of Clinical Oncology», il costo totale del cancro in Europa è pari, ogni anno, a 126 miliardi di euro, 16 in Italia. Nel nostro Paese (dati 2013) erano 2.800.000 i pazienti con storia di neoplasie, nel 2020 si prevede che saranno 4.500.000. «Sommando proiezioni statistiche e aumento del costo unitario dei trattamenti, tutto il mondo occidentale paventa l’imminente non sostenibilità delle cure per il cancro», spiega Gianpiero Fasola, presidente del Collegio italiano dei primari oncologi medici ospedalieri (Cipomo). Lo scenario coinvolge professionisti e opzioni di politica sanitaria: «Stante la scarsità di fondi, le scelte mediche valgono per il singolo paziente ma hanno un riflesso sulla società, perché dobbiamo prestare la massima attenzione a dove spendere le risorse». Far quadrare i bilanci ed evitare l’abbandono dei pazienti è un algoritmo impegnativo: «Serve una sinergia e consapevolezze comuni tra pazienti, medici e istituzioni – precisa Fasola –. Noi oncologi ci stiamo interrogando seriamente sul contributo che possiamo fornire, anche nel rivedere modelli organizzativi». Come? «Puntiamo su cure palliative e assistenza domiciliare: migliorano durata e qualità della vita».