Vita

Una tesi giuridicamente sbagliata. Perché l’aborto non è un «diritto»

Pier Giorgio Lignani* sabato 4 febbraio 2017

«Abortire è un diritto della donna», lo scrittore Roberto Saviano lo afferma con decisione in un articolo di pochi giorni fa. A quanto pare, secondo lui, abortire sarebbe uno di quei diritti universali e fondamentali della persona che – stando alle dottrine affermatesi nel secolo XX e culminate nelle apposite dichiarazioni sovranazionali – un legislatore nazionale, per quanto sovrano, non può sopprimere, ma anzi deve riconoscere e garantire. Parlando di «diritto della donna» Saviano intende dire che si tratta di un diritto pieno e incondizionato: la donna decide da sola e nessuno può interferire.

Cito Saviano perché è un autore di successo, ma queste idee sono piuttosto diffuse. Vale dunque la pena di discuterle, e lo faccio ora dal punto di vista non della morale cattolica ma della scienza giuridica laica. Infatti ogni ragionamento caratterizzato in senso religioso è, per un verso, scontato per chi condivide le sue premesse, e per un altro respinto a priori da chi non le condivide, in base alla formula "questo vale per te se ci credi, io non ci credo e per me non vale". Dunque, vediamo la questione del diritto di abortire dal punto di vista della razionalità laica. Bisogna partire dalla definizione di quell’entità che è l’essere concepito ma non ancora nato.

È un’idea astratta, una cosa, una persona? Alcuni sostengono che debba essere considerato una persona nel pieno senso della parola; ma almeno per ora è una posizione minoritaria, mentre la tradizione giuridica millenaria è in senso contrario. Lasciamo aperta la discussione su questo punto (anche perché il concetto filosofico e giuridico di persona può ricevere definizioni differenziate), e diciamo invece che quanto meno è un essere vivente, dotato di una sua piena individualità biologica e genetica e in qualche misura anche psicologica, e appartiene alla specie umana – anche se si trova transitoriamente in una situazione particolarissima, in quanto tutto ciò che gli occorre per vivere lo riceve dal corpo della madre in cui sta racchiuso. Insomma: forse possiamo non chiamarlo giuridicamente "persona" ma non possiamo negargli, quanto meno, la qualità di "essere umano".

Non a caso, da quando la scienza consente di conoscerne già il sesso è abitudine dei genitori dargli subito il suo nome e con quel nome parlarne. Non può dunque essere considerato alla pari di un dente che si toglie e si butta via. Tanto è vero che in qualunque legislazione del mondo chi provoca (anche involontariamente) un aborto senza il consenso della gestante è punito non solo per il danno che ha fatto alla madre ma proprio perché ha violato l’attesa di vita e di futuro che c’era in quell’essere. Il nascituro è protetto dall’ordinamento giuridico (cioè dallo Stato) come un valore in sé, non come una proprietà della madre. È per questo che non si può riconoscere alla donna il «diritto» incondizionato a liberarsene.

È anche vero, però, che fra il nascituro e la gestante vi è una relazione particolarissima, non paragonabile ad alcun’altra, che incide in modo profondo sull’essere stesso della madre (non solo sul suo corpo, pure se gli effetti sul corpo sono i più visibili). Quindi neppure i diritti e i doveri della gestante verso il nascituro possono essere misurati con lo stesso metro con cui misuriamo quelli di chiunque altro. Per questa ragione la nostra Corte Costituzionale nel 1975 (sentenza n.27) ha dichiarato parzialmente incostituzionale la legge che allora puniva come reato l’aborto chiesto o accettato dalla donna, e lo ha reso non punibile se praticato per salvarla da un pericolo di vita o anche da un pericolo non mortale ma tuttavia «grave, medicalmente accertato e non altrimenti evitabile». All’epoca questa decisione suscitò proteste anche nel mondo cattolico, ma comunque la si voglia giudicare rappresentava lo sforzo di trovare una soluzione senza affermare che la scelta di abortire è un diritto incondizionato della donna.

A tutt’oggi sul piano del diritto costituzionale la regola è rimasta quella. Ma la legge del 1978 va molto più in là, perché pur fingendo di mettere limiti e condizioni in realtà non prevede alcuna forma di controllo o di verifica sulla serietà dei motivi che portano alla scelta di abortire. Non prevede neppure che le istituzioni – pur senza avere il potere di opporsi a quella scelta – abbiano il compito di proporre alla donna soluzioni alternative. Per questi aspetti la legge del 1978 può essere giudicata incostituzionale. Ma neppure essa configura la scelta della donna come un «diritto» pieno e incondizionato perché quanto meno afferma che l’aborto non può essere usato come mezzo di limitazione delle nascite. L’equazione aborto-diritto non è sostenibile.


*già presidente di sezione del Consiglio di Stato