Vita

La storia. Pazienti oncologici, i «senza dimora»

Marco Birolini giovedì 9 febbraio 2023

La fondatrice di CasAmica Lucia Vedani

Un mattino di novembre la signora Lucia Vedani esce di casa per accompagnare i bambini a scuola. Le vie di Città Studi sembrano tutte uguali, ma quel giorno nel quadro c’è un dettaglio diverso. Un uomo piccolo, con un cappotto enorme che sembra schiacciarlo, si è appena alzato da una panchina, dove giaceva appoggiando la testa a una valigia, che poi prende fra le mani e inizia a trascinare con passo incerto verso l’Istituto nazionale dei tumori. È il 1985, la “Milano da bere” luccica e brinda come non mai. Ma la sera, mentre bar e ristoranti si riempiono, un plotone di disperati si sistema per la notte in attesa delle cure del giorno dopo. Sulle panchine si accomodano i più fortunati, agli altri rimane il marciapiede. È il dramma invisibile dei pazienti e dei loro parenti che arrivano da fuori Lombardia, spesso dal Sud, per sottoporsi alle terapie oncologiche. Qualcuno scorge la possibilità di lucrare sul dolore e porta in zona vecchie macchine scassate: chi può permetterselo paga 5mila lire e ci dorme dentro. In alternativa ci sono gli appartamenti in zona: in sette in una stanza, uomini e donne, 25 mila lire a testa. Milano si volta dall’altra parte, la signora Lucia no. «Non si poteva fare finta di niente. Ci sono momenti della vita in cui sei felice, hai un’esistenza quasi dorata. O te la godi senza troppi pensieri, oppure ti domandi perché io ho avuto così tanto e queste persone sulle panchine così poco. Metti le cose sulla bilancia e capisci che va assestata».

Quando il suocero muore, la famiglia Vedani decide di fare un gesto significativo per ricordarlo. Come donare un macchinario all’Istituto Besta. Ma Lucia ha un’idea diversa: « Pensai di lasciare un segno più grande, dare una casa a chi dormiva in strada aspettando le cure per sé o per qualche parente ricoverato». Nel 1986 nasce così la onlus CasAmica, con la prima residenza di via Saldini. Ne seguiranno altre 3 a Milano, poi una a Trigoria, vicino a Roma, aperta con l’aiuto di Joaquin Navarro Valls, capo della sala stampa vaticana ai tempi di papa Wojtyla, e infine una a Lecco. In 37 anni, quasi 100mila persone sono state accolte praticamente gratis. «Ogni letto ci costa almeno 30 euro, ma spesso queste persone non riescono nemmeno a darcene 10. A volte le aiutiamo anche a pagarsi il viaggio di ritorno. Ricordo un caso particolarmente triste di una bambina morta a 13 anni, purtroppo tanti non ce la fanno: il papà voleva riportarla a casa per seppellirla. Alla fine trovò un’ambulanza per il trasporto, ma costava più di 5mila euro. Nessuno trovò il coraggio di dirgli che avrebbe potuto cremare la sua creatura. Allora organizzammo una colletta e gli pagammo noi quello straziante rientro a casa».

Non è semplice convivere con dolori così profondi, e non lo è nemmeno far quadrare i conti. Ma è necessario provarci, se si vuole far qualcosa di concreto per mettere almeno un argine a questo mare di sofferenze. « Abbiamo sempre percorso la nostra strada con ostinazione, mia e dei tanti volontari. Passiamo la vita a raccogliere fondi: chi vuole può ad esempio aiutarci a pagare il soggiorno dei minorenni, che noi ospitiamo in modo del tutto gratuito». Da Regione e Stato qualche finanziamento arriva, ma il più delle volte è legato a bandi finalizzati a progetti specifici. Manca però una vera attenzione politica al fenomeno, si fa più che altro affidamento sulla generosità dei benefattori. « Il problema fondamentale è che queste persone vengono da lontano, quindi a volte ti senti dire: che ci pensino Regioni e Comuni di provenienza. Qualche volta abbiamo provato a bussare anche alle loro porte, ma quasi tutti hanno allargato le braccia. Sono figli di nessuno. Qualche Regione del Sud ha stanziato dei soldi, ma purtroppo si è sempre trattato di cifre modeste e soltanto a beneficio del paziente. Adesso stiamo tentando di sollevare la questione a Roma, ma è sempre un percorso in salita». Il punto cruciale, che tanti faticano a mettere a fuoco, è che «i malati, specialmente se sono minori, non vengono certamente al Nord da soli. Con loro si sposta tutta la famiglia. Gli ospedali apprezzano la nostra attività, ma anche loro arrivano fin dove possono. Si fanno carico del paziente finché è in reparto, ma quando esce in strada non è più di loro competenza».

Sono passati tanti anni da quel 1985 e la situazione è certamente migliorata. CasAmica ha deposto un seme che ha dato frutto, generando altre realtà simili, con le quali adesso Lucia Vedani vorrebbe fare rete «per far sentire la nostra voce». Ma i problemi restano sul tavolo, molto rimane da fare per dare dignità a questo esodo dolente e invisibile. La Lombardia è un polo sanitario d’eccellenza, che continua ad attirare malati da tutta Italia: e la rete d’accoglienza, fondata sulla generosità dei donatori, va spesso in apnea. «Tre anni fa – ricorda la fondatrice – una tv chiese a un nostro ospite: ma è vero che prima di venire qui dormivi in macchina? Magari, rispose lui, mi sdraiavo sotto le vetture per sentire un po’ di calore del motore...» Nel 2020, durante l’emergenza Covid in Lombardia, la onlus ha dato ospitalità anche ai medici accorsi dall’estero e da altre parti d’Italia per dare una mano. «Gli abbiamo garantito un letto e un pasto caldo, altrimenti anche loro avrebbero probabilmente rischiato di finire in strada». Come se non bastasse, bisogna sopportare anche gli sfregi della “concorrenza”. «Diamo fastidio a chi affitta le stanze, non sempre a buon mercato: dentro gli istituti ci sono le nostre locandine appese, ma ogni tanto ce le strappano...». Tra tante difficoltà e amarezze, spunta per fortuna anche qualche sorriso. Dentro le residenze di CasAmica, dice con orgoglio la presidente, «si vive come in una grande famiglia. Ognuno ha la sua stanza, ma poi ci sono spazi comuni in cui si sta insieme: in questo modo il dolore si affronta meglio, secondo me in alcuni casi la guarigione è anche più veloce. A volte entri e vedi i bambini seduti tutti insieme sul divano a guardare la tv: qualcuno ha la flebo attaccata al braccio, ma sembra che non ci faccia nemmeno caso».

Il futuro, dice la fondatrice, dovrà portare verso una vera sussidiarietà: «Servirà un rapporto integrato tra pubblico e privato, tra luogo di cura e residenza: chi può deve svolgere la convalescenza in case come le nostre, dove anche medici e infermieri possano venire per visite e terapie. Si libererebbero posti letto in ospedale, tagliando drasticamente sia i costi che le liste d’attesa. Stiamo provando questa strada al San Raffaele, speriamo di farcela». L’impegno va avanti, nonostante tutto. Lucia ha deciso di descriverlo in un libro, che esce in occasione della Giornata del malato: Una panchina ha cambiato la mia vita (Edizioni Ares, 208 pagine, 19 euro). L’obiettivo è far capire che «la felicità consiste nel vedere felici gli altri». Ci aveva già provato Aristotele, 24 secoli fa.