Vita

Milano. «Non morì in Lombardia: Eluana, va risarcito il papà»

Marcello Palmieri giovedì 22 giugno 2017

In aprile il Tar di Milano aveva condannato la Regione Lombardia al pagamento di 132.965,78 euro a favore di Beppino Englaro: era il risarcimento per aver ordinato a tutte le proprie strutture sanitarie – nonostante i diversi provvedimenti dell’autorità giudiziaria, ottenuti grazie alla caparbietà del ricorrente – di non staccare l’alimentazione artificiale alla figlia Eluana, in stato vegetativo dal 1992. La figlia era poi morta il 9 febbraio 2009 a Udine, in una clinica che aveva offerto di sospenderle la nutrizione. Ieri il Consiglio di Stato ha pubblicato la sentenza d’appello (definitiva): 59 fittissime pagine, che confermano il risarcimento ma con motivazioni e calcoli molto diversi da quelli operati in primo grado.

Se dunque il discorso giuridico è molto complesso, i princìpi di diritto che teorizza Palazzo Spada – espressi in modo inequivocabile – non mancheranno di sollevare interrogativi. Tanto più che questa pronuncia s’interseca con il dibattito parlamentare attorno alla legge sul fine vita, facendo proprie le sue istanze più estreme.

Innanzitutto, il Consiglio di Stato richiama la sentenza 21748/2007 con cui la Cassazione – decidendo che Eluana potesse morire – afferma che il rapporto tra medico e paziente «appare fondato prima sui diritti del paziente e sulla sua libertà di autodeterminazione terapeutica che sui doveri del medico», per cui «deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita». Ma queste affermazioni contrastano con il codice deontologico dei sanitari, che vieta – anche se richiesto al medico – ogni atto destinato a provocare la morte del paziente.
Affermano poi i massimi giudici amministrativi che, in conseguenza di quella pronuncia, «la Regione era tenuta a continuare a fornirle (a Eluana, ndr) la propria prestazione sanitaria, anche se in modo diverso al passato».

Secondo il Consiglio di Stato, dunque, interrompere l’alimentazione artificiale nell’intento di dare la morte equivale a una prestazione sanitaria che, se voluta, non può essere negata. Ed essendosi rifiutata di "erogarla", la Regione Lombardia avrebbe determinato in Eluana «il non voluto prolungamento della sua condizione, essendo stata calpestata la sua determinazione di rifiutare una condizione di vita ritenuta non dignitosa». Quindi, dicono i giudici, c’è un danno risarcibile: 100mila euro solo per questo, che si trasferiscono al padre quale unico erede. Si aggiungano i costi di trasporto nella clinica di Udine, la retta di degenza, il piantonamento per motivi di sicurezza...

Il tutto con interessi di legge al centesimo: ecco il totale di quasi 133mila euro. «Le sentenze non si commentano, ma si attuano, ancorché i fatti della sentenza di oggi siano imputabili alla precedente amministrazione» commenta Giulio Gallera, assessore regionale alla Sanità. Un ultimo dato di cronaca: il caposaldo del procedimento – e cioè la volontà di morire, in capo a Eluana – è sempre stato affermato dal padre unicamente su presunzioni. Tra l’altro, per nulla inequivoche.