Vita

Il caso. Manchin e Sinema, i senatori dem che fermano la legge federale Usa sull’aborto

Redazione Internet venerdì 1 luglio 2022

Manifestazione per la vita negli Stati Uniti

Si chiamano Joe Manchin – 74 anni, senatore del West Virginia – e Kyrsten Sinema – 45enne avvocata che al Senato rappresenta l’Arizona –, sono entrambi democratici e in questo momento costituiscono una spina nel fianco per il partito di Biden: continuano infatti a essere tenacemente contrari a una manovra parlamentare che consentirebbe ai Dem di legiferare sull’aborto a livello federale. I due infatti si stanno opponendo allo smantellamento del «filibustering» (l’ostruzionismo) per abbassare da 60 a 51 i voti necessari per i provvedimenti più importanti. Senza di loro i 50 senatori democratici non avrebbero quindi neppure la maggioranza semplice, pur potendo contare sul voto decisivo della vicepresidente Kamala Harris in caso di parità. Preso atto che non ha i voti necessari, Biden ha lanciato un appello al voto agli americani in vista di Midterm di novembre ventilando che «ora sono a rischio anche le nozze gay e i diritti alla contraccezione». Secondo il presidente la decisione con la quale il 24 giugno la Corte Suprema americana ha cancellato la sua sentenza del 1973 sull'aborto negando che sia un diritto federale ha «un impatto molto più grande» perché ora «la Corte potrebbe riconsiderare i contraccettivi o i matrimoni tra persone dello stesso sesso». Una dichiarazione ancora priva di un vero riscontro, dunque per intimorire l’elettorato, mentre il Senato di uno Stato solidamente democratico come New York ha approvato un emendamento per sancire nella Costituzione locale il diritto all'aborto e l'accesso alla contraccezione. La misura, che vieta anche ogni tipo di discriminazione razziale, etnica, sessuale, deve essere ora approvata dalla Camera e poi sottoposta a referendum in novembre. Anche altri Stati oggi a guida democratici vogliono inserire il diritto all'aborto nella loro Carta fondamentale.
Intanto un altro giudice di uno Stato repubblicano – la Florida – ha annunciato il blocco della nuova legge statale che vieta gli aborti dopo 15 settimane di gravidanza (105 giorni). Secondo il magistrato John Cooper, il provvedimento della Corte di Washington infatti violerebbe le garanzie della privacy stabilite dalla costituzione della Florida. La nuova legge era stata fortemente voluta dal governatore repubblicano Ron Desantis, considerato un possibile candidato alle presidenziali del 2024 in alternativa a Trump. Lo Stato della Florida ha già pronto un ricorso alla Corte Suprema locale, mentre è tornata in vigore la legge precedente che permetteva l'aborto entro la 24esima settimana o anche oltre in caso di rischi per la salute della madre, stupro o incesto.
Si muove anche il fronte dell’aborto chimico, che dopo la recente autorizzazione da parte dell’autorità di farmacovigilanza federale Fda alla prescrizione a distanza e all’invio per posta dei farmaci abortivi vede interessate varie aziende che vendono il prodotto. L'azienda GenBioPro, con sede a Las Vegas, produttrice di una versione generica del mifepristone (principio della Ru486), ha dichiarato a un giudice federale che la sentenza della Corte Suprema non consente al Mississippi di impedirle di vendere le pillole nello Stato. L'approvazione da parte della Fda, a parere dell’azienda, dovrebbe prevalere su qualsiasi divieto statale.
L'azienda aveva citato in giudizio lo Stato nel 2020 per contestare le norme che limitavano specificamente l'aborto farmacologico. Il Mississippi si appresta a varare regole fortemente limitanti degli aborti in base a una "legge di attivazione" del 2007, sbloccata dal verdetto di Washington. GenBioPro ha reagito affermando che questa legge creerà un «conflitto molto più diretto ed evidente» con la Fda e citando il procuratore generale degli Stati Uniti Merrick Garland secondo il quale gli Stati «non possono vietare il mifepristone sulla base di un disaccordo con il giudizio degli esperti della Fda sulla sua sicurezza». Il Mississippi ha replicato affermando che «il panorama legale dopo la sentenza si è spostato in modo schiacciante a favore dell'autorità degli Stati di regolamentare o proibire l'aborto» e quindi non c’è alcuna prova che il Congresso abbia mai inteso che la Fda limitasse la capacità degli Stati di regolamentare l'aborto.
La scossa prodotta dal verdetto dei giudici di Washington si è riverberata in tutto il mondo. La Comece (Commissione delle Conferenze episcopali dell'Unione europea) ha incontrato la presidente del Parlamento Europeo Roberta Metsola esprimendo la sua assoluta contrarietà all’ipotesi di inserire l’aborto tra i diritti Ue. «Il tentativo di introdurre un presunto diritto all'aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea – ha dichiarato il cardinale lussemburghese Jean-Claude Hollerich, presidente Comece – metterebbe in grave pericolo il diritto all'obiezione di coscienza». Il leader dei vescovi cattolici dell’Unione ha espresso al vertice dell’Europarlamento «le preoccupazioni della Chiesa cattolica per il modo in cui la questione dell'aborto viene trattata a livello comunitario». L'8 giugno la Comece, aveva manifestato preoccupazione e «sorpresa» per la risoluzione passata all’assemblea di Strasburgo che, presagendo la svolta federale Usa sull’aborto, qualificava l'aborto come «diritto» esortando gli Usa e i Paesi europei a non deteriorare i diritti delle donne in merito all'interruzione di gravidanza e invitandoli a garantire l’accesso sicuro all'aborto. Sul tema dell'aborto nella legislazione degli Stati Uniti il Parlamento europeo tornerà a confrontarsi durante la plenaria della prossima settimana a Strasburgo, con un dibattito e una nuova risoluzione.