Vita

IL CASO. Mamme «in affitto», l’India non sa come dire basta

Lorenzo Schoepflin giovedì 24 gennaio 2013
L’India ha impresso il primo giro di vite alla maternità surrogata. Il Ministero degli interni indiano ha emanato linee guida sul rilascio del visto per chi si reca in India allo scopo di accedere a servizi di fecondazione artificiale: i permessi per motivi medici saranno rilasciati esclusivamente a coppie eterosessuali sposate da almeno due anni. Stop, dunque, ai viaggi di omosessuali e single alla ricerca di un utero a buon prezzo dove impiantare l’embrione concepito in provetta. Un primo tentativo di regolamentazione che è solo un piccolo passo verso l’auspicabile bando totale di questa pratica, ma che è anche un chiaro segnale circa l’insostenibile assenza di regole di un fenomeno che ha raggiunto dimensioni industriali.
Di «industria senza regole della maternità surrogata» parlava un articolo di Lancet del novembre 2012: secondo la pubblicazione, è difficile stabilire quanto sia diffuso il fenomeno, ma cifre plausibili parlano di più di 25mila bambini nati da utero in affitto fino a oggi in India. Di essi, la metà erano destinati al ricco Occidente. Il 28 dicembre il quotidiano britannico The Independent ha pubblicato un reportage dal titolo inequivocabile: «L’aumento delle coppie in cerca di uteri in affitto all’estero». Secondo le cifre riportate, dal 2007 al 2011 il numero annuale delle sole coppie inglesi che hanno usufruito di tale "servizio" è passato da 47 a 133. Le tariffe si aggirerebbero tra le 10mila e le 20mila sterline e al proposito l’Independent parlava esplicitamente di «donne povere dei Paesi in via di sviluppo sfruttate dai ricchi occidentali».
Un effetto collaterale che si somma ai danni della provetta, e che il governo indiano sta cercando di arginare ormai da anni. Nel 2009 una commissione incaricata di esaminare la regolamentazione della fecondazione in India espresse la convinzione circa la necessità di evitare che le donne affittino il proprio utero per ragioni commerciali, limitando la pratica ai casi definiti "altruistici". Pur riconoscendo, però, che l’affitto dell’utero ha un impatto determinante sulla concezione comune di famiglia, la commissione affermò che non lo si poteva vietare totalmente basandosi su quelle che definiva «vaghe ragioni morali».
Ma i lati oscuri della maternità surrogata non emergono solo in India. Negli Usa, dove la pratica è legale con l’eccezione di qualche Stato, l’84% delle 443 cliniche censite dichiara di garantire l’affitto di utero. Il «Council of responsible genetics» ha calcolato che nel 2006 furono 491 i bambini nati negli Stati Uniti grazie a donne che avevano messo a disposizione il proprio utero. In Canada, dove la maternità surrogata è legale solo se non si configura un interesse economico, nel 2010 una donna oppose resistenza di fronte alla richiesta della coppia che aveva affittato il suo utero di abortire il bambino. Dopo aver scoperto che il figlio era affetto da trisomia 21, infatti, i due avevano chiesto di interrompere la gravidanza. La gestante fu costretta ad accettare poiché accordi scritti prevedevano che per i genitori biologici decadeva ogni obbligo verso il bambino qualora fosse nato senza il loro consenso.
In Thailandia due anni fa fu portato alla luce un vero e proprio racket dello sfruttamento di donne, pagate 5mila dollari per affittare il loro utero a coppie, pronte a loro volte a pagare fino a 32mila dollari per i servizi legati alla maternità surrogata. La clinica, che ricavava così ingenti somme da tale attività illegale, aveva sottratto i passaporti a 13 donne vietnamite, minacciando di non restituirlo qualora si fossero rifiutate di concedere il proprio utero. Nel Regno Unito, dove la maternità surrogata è legale – sempre se fatta senza scopo di lucro –, ma non è regolata dalla Hfea (l’autorità pubblica in materia di fecondazione artificiale), due mesi e mezzo fa ha cessato la propria attività di mamma in affitto Carol Horlock. La signora Horlock, 46 anni, ha dato alla luce complessivamente 13 bambini per 9 diverse coppie, meritandosi il titolo di madre surrogata più prolifica del mondo. Nel 2004 il test del Dna rivelò che uno dei 13 bambini, consegnato ad una coppia, era in realtà il figlio naturale di Carol, frutto di una gravidanza imprevista.