Vita

Nuovo ricorso alla Consulta. Così si mina la legge 40 alla radice

Francesco Ognibene lunedì 27 gennaio 2014
Dunque si vuole consentire l’accesso alla fecondazione artificiale anche da parte di coppie che non hanno problemi a concepire, negando lo stesso motivo per il quale la legge era stata discussa e approvata a larga maggioranza: cioè permettere a coppie sterili di accedere a una possibilità di avere un figlio proprio. Se la Corte dovesse accogliere questo ulteriore ricorso, si sancirebbe la libertà pressoché illimitata di accesso alla maternità in provetta, vanificando di fatto la stessa legge 40 e riaprendo il far west procreativo. Un effetto abnorme, che è però il bersaglio ultimo di tutta la campagna anti-legge 40 sin dai referendum abrogativi falliti nel 2005. Ma non basta. Il nuovo ricorso ha come primo bersaglio il divieto di diagnosi reimpianto sull’embrione concepito in vitro. Va ricordato che però la Corte costituzionale su questo punto si era già espressa confermando la legittimità costituzionale dell’articolo 13, che tuttora vieta la diagnosi reimpianto. Con l’ordinanza del 24 ottobre 2006 n.369, infatti, la Consulta aveva dichiarato “la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 13” che vieta la sperimentazione sugli embrioni umani e la selezione eugenetica. Il fatto che questo divieto sia ancora pienamente in vigore, al contrario di quel che sostengono i detrattori della legge, è dimostrato dalla necessità di ricorrere alla Corte per abbatterlo. Malgrado questa evidenza, chi critica la norma fecondazione artificiale sostiene che la pratica di alcuni centri che già realizzano diagnosi sugli embrioni prima dell’impianto nell’utero della madre per selezionare il migliore scartando gli altri andrebbe riconosciuta come una prassi ormai diffusa e lecita.