Vita

Il presidente dell'Aris. «Negli istituti cattolici si cura, non si segrega»

Paolo Viana giovedì 11 ottobre 2018

Il presidente dell'Aris, padre Virginio Bebber

«Finalmente chi sparla senza vedere potrà, se vorrà, sincerarsi con i propri occhi di quanto si usa troppe volte a sproposito il termine 'segregazione' ». Padre Virginio Bebber, presidente dell’Associazione religiosa degli istituiti socio-sanitari (Aris) sottolinea l’entusiasmo che accompagna i Centri di riabilitazione associati nel prepararsi a vivere sabato 13 l’open day della riabilitazione, d’intesa con la Cei. Camilliano, 74enne trentino, padre Bebber ha tra i suoi numerosi incarichi la direzione delle Case di cura San Camillo di Cremona e di Milano e la carica di coordinatore delle attività sanitarie e assistenziali della Provincia lombardo-veneta della congregazione.

Qualcuno ha accostato il termine 'segregazione' all’assistenza ai disabili, in particolare psichici. Le strutture gestite da enti e congregazioni religiose associate si sentono chiamate in causa?

Assolutamente no. A parte il fatto che sono veramente poche le strutture associate che si occupano di assistenza psichiatrica, sfido chiunque a visitare qualsiasi istituto di riabilitazione che si richiama ai principi della Chiesa cattolica per capire veramente quanto troppo spesso si parla a sproposito. Purtroppo in Italia si spara sempre nel mucchio senza vera cognizione di causa. Oltre il 70% di simili strutture sono pubbliche o affidate a privati convenzionati e non, ma che nulla hanno a che fare con noi. Non ci sentiamo comunque di dover rispondere a nessuno come Aris.

Pensa che ci sia un disegno per screditare le strutture sanitarie della Chiesa?

Non voglio pensare a progetti di questo tipo contro le nostre opere. Certamente non siamo 'sponsorizzati', nonostante il nostro sia un servizio pubblico a tutti gli effetti, riconosciuto tale dalla legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale e a parità di condizioni con tutte le altre strutture sanitarie pubbliche del Paese. La gente a volte viene messa di fronte a sporadici casi che, purtroppo, si verificano in certe strutture, e si convince, o viene aiutata a convincersi, che il sistema sia più vicino alla segregazione che non all’accoglienza e alla cura. A parte il fatto che le porte delle nostre strutture sono sempre aperte, invitare – tutti insieme e nello stesso giorno – quanti vogliano sincerarsi di quale sia il clima che si vive nelle istituzioni che si richiamano ai princìpi ispirati al Vangelo significa cogliere un’occasione per dare conto del senso dell’accoglienza cristiana che guida il nostro operare nel mondo della sofferenza e della fragilità umana.

È questo che vi ha spinto ad aderire all’iniziativa dell’open day?

Crediamo fermamente nell’obiettivo fissato dall’Ufficio nazionale per la Pastorale della salute con questa iniziativa: accendere un’attenzione particolare dell’opinione pubblica sui luoghi di accoglienza, terapia e riabilitazione, specificamente rivolti a persone con disabilità mentale. E con grande soddisfazione desidero sottolineare l’adesione della quasi totalità degli istituti riabilitativi associati Aris all’invito di don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio Cei, ad aprire le porte delle strutture sabato per dare la visibilità e la dovuta attenzione a un mondo complesso e fragile, spesso liquidato entro i contorni del disagio che poco racconta e molto esclude delle realtà di senso che ogni persona e ogni contesto possono esprimere.

Cosa trova un paziente che si rivolge a una struttura sanitaria religiosa che non trova altrove?

È quello che la gente dovrà venire a scoprire il 13 ottobre, o quando vorrà. Non ci piace parlarci addosso. Le dico solo che questa estate una squadra dei Carabinieri del Nas ha trascorso quasi una giornata in uno storico centro di riabilitazione romano e alla fine si è complimentata con il direttore del centro, soprattutto per il clima di amore che traspariva da ogni angolo del pur grande istituto. Ma su questo non ho visto neppure una riga sui giornali. Bisogna dire altro?

La legge sulle Dat pone alle strutture religose una questione di coerenza. Come si comporteranno le istituzioni aderenti all’Aris?

Qualche solone di turno ha già risposto per noi citando il Vangelo: «A Cesare quel che è di Cesare» ha sentenziato, intendendo con ciò sostenere l’obbligo di sottostare a una legge dello Stato. Un principio che noi rispettiamo, a patto che quel passo del Vangelo citato pro domo sua sia proposto per intero con la prosecuzione della frase pronunciata da Gesù – «e a Dio quel che è di Dio» –, e parimenti accettato, come si usa in una vera democrazia. Per noi ha parlato papa Francesco citando il Catechismo della Chiesa cattolica. Dunque, siamo per il no all’accanimento terapeutico ma per il sì all’idratazione e all’alimentazione artificiali sino a quando esse non dovessero procurare – e ciò dovrebbe essere clinicamente accertato – ulteriori e inutili sofferenze. Far morire un malato di sete o di fame piuttosto che per la sua malattia significherebbe aprire le porte all’eutanasia.