Vita

La storia. Io, neurologa in Ucraina per l'hospice pediatrico

Matilde Leonardi giovedì 26 gennaio 2023

Suor Giustina con i "suoi" bambini

Il sole di una fredda Leopoli illumina la stanza del convento in cui Suor Giustina Olha Holubert ci riceve durante la missione umanitaria in Ucraina. Lei è genetista e psicologa, è la fondatrice dell’associazione Perinatal Hospice-Imprint of Life di Lviv (Leopoli), in Ucraina, il primo hospice di cure palliative perinatali del Paese, per bambini che nascono con difetti congeniti, o per bambini che nascono da quelle madri che scelgono di continuare la gravidanza anche dopo aver scoperto che i loro figli hanno difetti fatali. Ci parla del suo lavoro, del senso di umanità, spiritualità e psicologia che viene messo in atto per aiutare i genitori ad affrontare gli aborti spontanei o le nascite di questi bambini con malformazioni che conducono alla morte. Ci racconta che ciò che guida il suo lavoro è lo slogan «Non posso aggiungere giorni alla tua vita, ma posso aggiungere vita ai tuoi giorni». «Si tratta di amore e potere sconfinati – ci dice –, se non puoi fare più niente puoi amare fino alla fine».

La morte, per tutti i bambini che lei segue e che nascono nei diversi ospedali di Leopoli, arriverà comunque, ma, continua, «non ci concentriamo sulla morte quanto sul vivere con questo bambino ogni momento, dandogli amore qui e ora per il tempo anche brevissimo che vive. I bambini lo sentono, e ognuno di loro ci insegna qualcosa, non importa quanto tempo ha vissuto nel grembo materno, o quando è nato. Ogni bambino lascia una piccola traccia d'amore per tutta la vita... Una diagnosi di un bambino apre un vuoto creato dalla paura, dal dolore della disperazione, dall'incertezza per i genitori. Ma diciamo che si può vivere tutto in un altro modo. Queste piccole e brevi vite lasciano tanto per noi. Nei casi in cui “non c’è niente da fare” si può sempre fare qualcosa. Per quanto possa essere stata lunga o breve la vita di un bambino, siamo consapevoli che la morte produce un dolore immenso, ma se la famiglia vuole parlare con noi o ci chiede sostegno, chiediamo sempre di considerare anche quanta felicità ha portato un bambino alla famiglia. È stato concepito nell’amore, ed è stata una grande felicità quando i genitori hanno scoperto che stavano per avere un bambino. Chiediamo di ricordare quali sono state le belle sensazioni durante la prima ecografia, o durante il primo movimento, e diciamo che queste erano emozioni positive che il bambino ha portato nella sua vita. E come l'hanno amato da subito incondizionatamente. Forse questo bambino, diciamo sempre, è stato felice perché amato tanto, non aveva fame, non aveva freddo, non è stato abbandonato, o privato della vita, ed è stato molto più felice di chi vive dolore, tradimento, ingiustizia. Vediamo come, dopo questa riflessione, spesso appare un sorriso sul viso dei genitori».

Mentre Suor Giustina parla mi vengono in mente le parole di san Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi (12, 10) che sempre ho in mente quando vedo la malattia dei miei pazienti con disordine di coscienza, che sfidano la ragione col loro silenzio e la loro fragilità: «Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”». Ripenso allo psichiatra e scrittore Eugenio Borgna che nel suo libro La fragilità che è in noi (Einaudi, 2014) ci dice che «la malattia modifica il modo di vivere di ciascuno di noi: ci rende ancora più fragili di quello che già non si sia quando non siamo malati. La malattia fisica porta alla luce della coscienza ogni nostra umana fragilità, quella presente in ogni ora e in ogni stagione della nostra vita, e ne crea altre, ancorate all'angoscia, che non è se non angoscia della morte, e che ci trascina negli abissi della solitudine. Ciascuno di noi – continua Borgna – rivive la malattia, il suo essere malato, in modi diversi; ma se si vuole essere di aiuto a chi ne avverta la presenza con un'acuta coscienza di fragilità e di debolezza, di inquietudine dell'anima e di disperazione, è necessario ancora ascoltare le parole inespresse del dolore e della solitudine, del silenzio e della fatica di vivere, che si accompagnano ad ogni umana esperienza di fragilità».

Suor Giustina racconta come esercita l’ascolto e di come nei reparti delle cure perinatali, a casa se il bimbo è stato dimesso, o in anatomia patologica se il bimbo è già morto, si occupi di vestirlo in modo da presentarlo ai genitori con una immagine positiva, con un vestitino, una cuffietta, delle scarpine talora piccolissime, che rendano quell’incontro, che in alcuni casi è il primo e unico tra genitori e figlio, un momento che lasci un ricordo positivo, un ricordo di amore. «Non si deve dire – conclude Suor Giustina mentre stiamo per ripartire verso l’Italia – che quella madre ha perso un figlio, perché quel bambino lo hanno perso anche il padre, i nonni, i fratelli, gli amici, tutta la comunità. E talvolta un bambino di poche settimane è stato in grado di fare più di una vita di molti anni. Ogni perdita di una vita, non importa se è stata di dieci o di cinquemila settimane, è una perdita per la comunità».

La situazione in Ucraina è oggi ancora drammatica ma suor Giustina svolge ogni giorno la sua missione per servire la vita: «Servire è una vocazione a mostrare la compassione alla vita intorno a noi. Un cristiano con la sua vita e il suo comportamento può raggiungere i cuori dei suoi vicini, amici, colleghi, aprendo loro la strada della verità, l’unione con Dio e gli altri. Diffondendo in questo modo già sulla terra il Paradiso». E io penso allora ai tanti adulti malati che muoiono privi di una comunità che li aiuti a fare i conti con la morte senza paura e a congedarsi cercando di raccogliere ciò che di essenziale hanno compreso nella vita. Quando muore un bambino, un malato per la sua malattia, un anziano per la sua vecchiaia, non si deve pensare alla morte ma alla vita che vive perché, scrive Borgna, «quella che agli occhi del mondo, appare come fragilità, come insicurezza o come ricerca di un infinito irraggiungibile è il riverbero della luce ardente della speranza, di una speranza che rinasce dall'angoscia e dalla disperazione, negli orizzonti inconoscibili del mistero». Per chi crede è la speranza di Dio, per chi non crede è la speranza di avere amore fino all’ultimo secondo fragile, qui sulla terra.