Vita

Mercato delle gravidanze a pagamento. Il rompicapo americano delle «madri in affitto»

Lorenzo Schoepflin giovedì 22 maggio 2014
Quando si parla di maternità surrogata negli Stati Uniti il colpo d’occhio sulla mappa degli Usa è quello di un mosaico dai molti colori, tanti quante sono le possibili sfumature legali di una pratica così controversa come quella dell’utero in affitto. La maternità surrogata trova sulla sua strada un semaforo dalle molteplici colorazioni. Luce verde decisamente brillante laddove la legge permette espressamente il ricorso a madri surrogate, che va a sbiadirsi se la legge non contiene espressamente un divieto lasciando qualche varco a sentenze favorevoli di Corti e tribunali o a contratti privati di cui è riconosciuta la validità, fino a diventare pallida dove non si registrano leggi o casi di alcun tipo. Analogamente, luce rossa accesa dove il divieto assoluto è legge, arancione dove il no sussiste solo qualora la madre surrogata agisca dietro compenso, fino ad arrivare a un divieto che riguarda solo la cosiddetta surroga gestazionale, ovvero l’inseminazione coi gameti del padre di una donna che poi rinuncia ai diritti di madre in favore della partner del padre. In questa vera e propria giungla del diritto non va dimenticato che un’altra variabile da considerare è quella delle condizioni di chi intende diventare genitore: single, conviventi, sposati (eterosessuali od omosessuali) possono accedere legalmente alla maternità surrogata a seconda dello Stato in cui vivono. Ovviamente il panorama è in continua evoluzione. L’ultima modifica in ordine di tempo riguarda la Lousiana, finora sprovvista di regole in materia, dove è stata approvata da Camera e Senato la legge che permette a coppie eterosessuali sposate di accordarsi con donne tra i 24 e i 35 anni che vogliano agire da madri surrogate senza compenso. Adesso il destino del testo è nelle mani del Governatore Bobby Jindal, che su una legge analoga, ma più permissiva, pose il veto lo scorso anno. Sicuramente è la California uno degli Stati dell’Unione storicamente favorevoli all’affitto di uteri. La legge entrata in vigore nel 2013 è solo la conclusione di un percorso che inizia vent’anni prima. Nel 1993 la Corte suprema californiana si espresse sul caso «Johnson v. Calvert», riconoscendo come genitori di un figlio nato da maternità surrogata i donatori dei gameti e tagliando fuori la donna che aveva partorito il bambino. Da allora altre sentenze hanno segnato la strada verso la liberalizzazione: tra esse va ricordata quella del 2005, in cui la Corte suprema esaminò i tre casi «Elisa B. v. Superior Court», «Kristine H. v. Lisa R.» e «K.M. v. E.G.», riguardanti coppie lesbiche che avevano commissionato un figlio da utero in affitto. La Corte stabilì che le due donne della coppia potevano essere riconosciute legalmente come genitori del neonato. Di fatto la legge ha recepito quanto già introdotto per sentenza, modificando il Family Code californiano per la ridefinizione del diritto familiare. Oggi la California è sede di moltissime cliniche che forniscono servizi legati a fecondazione artificiale, donazione di gameti e uteri in affitto. Nello Stato di New York, invece, gli accordi tra coppie e madri surrogate vengono ritenuti nulli, le legge non consente ancora l’affitto di uteri, ma, seppur tortuosa, la strada per le coppie che commissionano un figlio a una donna non è del tutto sbarrata. In un recente caso, su cui la Family Court della contea di Queens si è espressa il mese scorso, due omosessuali sono stati riconosciuti padri di due gemelli nati da madre surrogata indiana, usando l’escamotage dell’adozione del bimbo da parte del marito del padre biologico. Sulla scia di casi come questo, c’è chi preme per un aggiornamento in senso permissivo della legge. È interessante notare come la stessa Corte riconosca la non validità del contratto di surroga, che però non costituisce un ostacolo legale per l’adozione. In Michigan la legge «Surrogate parenting act» del 1988 vieta espressamente il ricorso alla maternità surrogata, prevedendo multe fino a 50mila dollari e cinque anni di carcere. Si sono susseguite alcune sentenze su casi particolari che hanno confermato il contenuto del testo. Nel 1992, esaminando il caso «Doe v. Att’y Gen», la Corte d’appello del Michigan respinse un ricorso contro la legge, puntualizzando tre elementi fondamentali: il bambino non può diventare una merce, il miglior interesse del figlio deve essere tutelato, lo sfruttamento della donna deve essere impedito.