Vita

Idee. Perché il Papa dice no al «gender che annulla la differenza uomo-donna»

Roberto Colombo sabato 2 marzo 2024

L’indifferenza sociale è malattia dell’animo, semplice da diagnosticare, difficile da curare. La sua storia patologica e le sue cause sono molteplici, ma manifesta segni e sintomi inequivocabili: disinteresse per l’altro, miopia spirituale, attaccamento morboso al posseduto, isolamento volontario in una bolla monotona, pietrificata. Se chi ne è affetto è un credente, la virtù della carità ne soffre primitivamente, con metastasi anche nella fede e nella speranza.

Le prediche laiche, non meno delle omelie, denunciano questa forma d’indifferenza ostile alla vita della comunità civile ed ecclesiale, contagiosa. Si chiedono percorsi di riabilitazione alla solidarietà sociale e all’amore del prossimo, e la ricostruzione della trama del tessuto umano e cristiano. Il Santo Padre lo ha più volte sollecitato.

Ieri l’altro, però, Francesco ha puntato il riflettore su una seconda forma d’indifferenza, più subdola e crescentemente pervasiva: l’indifferenza antropologica. Tende ad annullare o censurare la differenza nell’umano, vista come nemica delle pari opportunità, della non-discriminazione e della libertà di autodeterminazione del proprio essere nel mondo. «Cancellare la differenza è cancellare l’umanità», ha detto. L’umanità è plurale, non singolare. È questa la ricchezza e il suo splendore, che la rende «cosa molto buona» (Gn 1, 31) agli occhi di Dio, che così l’ha voluta e creata. E la prima, originaria e originante differenza antropologica è quella uomo-donna. «Uomo e donna stanno in una feconda “tensione” – ricorda il Papa – che non cancella le differenze e rende tutto uguale», come, invece, le scelte di vita affettiva “fluide” e autoreferenziali, in balia delle opzioni della «ideologia del gender, che annulla le differenze».

È significativo che questo richiamo sia nel contesto di un discorso ai partecipanti al convegno “Uomo-Donna immagine di Dio. Per una antropologia delle vocazioni”. La vocazione fondativa di ogni altra particolare, cui la donna e l’uomo sono chiamati, è quella che «ha a che fare con una caratteristica essenziale dell’essere umano in quanto tale: quella, cioè, che l’uomo stesso è vocazione», che gli è data nel suo essere uomo e donna. Prima di ogni ulteriore determinazione del proprio curriculum vitae, alla libertà è chiesto di abbracciare ciò che già siamo come compito e missione (laicissimi) della vita. La “carriera” non può essere “alias” se perde l’“idem” che ci consente di dire “io” come chiamati all’esistenza. Nella Bibbia è Dio che dà il nome a tutto e a tutti, anche all’uomo e alla donna (Gen 1, 24). I nostri nomi sono il riverbero del nome che il Creatore ha plasmato nel nostro venire al mondo come uomo-donna.

Spetta alla filosofia pensare la differenza nell’unità e l’unità nella differenza. Un lavoro formidabile tutt’ora in corso, nell’esercizio della ragione che è propria del pensiero antropologico. Un’unità-differenza che si declina originalmente in quella uomo-donna. «La differenza sessuale rappresenta il problema che la nostra epoca ha da pensare», scriveva quarant’anni fa la filosofa e psicoanalista Luce Irigaray. Alla sua voce, quasi isolata nella galassia femminista e genderista, si aggiungono le parole di papa Francesco pronunciate nel 2016 dinanzi agli studiosi di scienze del matrimonio e della famiglia: «Come possiamo conoscere a fondo l’umanità concreta di cui siamo fatti senza apprenderla attraverso questa differenza?».

Siamo chiamati a lasciarci sfidare dalla differenza non ritenendola un lasciapassare irricevibile per una dignità umana a geometria variabile, per la discriminazione, la disuguaglianza, la sperequazione delle opportunità, o addirittura la violenza. E, supposta tale, da cancellare culturalmente e socialmente. Differenza non è “di-versità”. Non sono in gioco due “versanti” opposti della soggettività, che si guardano a distanza, ma una sola tensione nella stessa direzione.

Si tratta di abbracciare la differenza come la condizione del darsi e del conoscersi dell’umano concreto in ciascuno di noi come dono e come compito, cioè come vocazione. Ritornando all’etimo della parola “differenza” nell’esistenza sessuata: portare in altro luogo antropologico (il vissuto femminile e il vissuto maschile) l’identico dell’umano, che è sempre e costitutivamente duale nella sua struttura ontologica-creaturale. L’intero della meraviglia del creato è la tensione comunionale uomo-donna. Abolendo questa irriducibile polarità cresce la povertà antropologica. Il rischio di questa nuova povertà è serio.