Vita

Salute. Giovani medici, l’Africa come specialità. E un libro li racconta in 30 lettere

Chiara Vitali giovedì 26 ottobre 2023

Gianluca Bortignon

Silvia Professione e Alessandra Abbamondi rispondono al telefono da due Paesi dell’Africa distanti migliaia di chilometri. La prima è in Sierra Leone, la seconda in Tanzania. Sono partite entrambe a metà settembre con Medici con l’Africa-Cuamm per vivere sei mesi formativi all’estero. Sono entrambe specializzande, cioè già laureate in Medicina e iscritte a una scuola di specializzazione, rispettivamente in Medicina interna e in Ginecologia e Ostetricia. Prima di partire hanno dovuto affrontare una selezione e poi partecipare a un percorso di formazione. Non sono le sole: ogni anno decine di giovani medici scelgono di passare un periodo via, non in laboratori all’avanguardia o in Paesi famosi per la ricerca medica, ma in contesti umanitari e di emergenza.

Da dove nasce questo desiderio, e a cosa serve?

Silvia: crescita professionale e umana​

Silvia Professione - Collaboratori

«Mi sto confrontando con un contesto totalmente diverso da quello a cui sono abituata – risponde Silvia Professione, 30 anni di Milano –. Sono a Pujehun, un piccolo paese della Sierra Leone circondato da palme e banani. Lavoro in un ospedale governativo che comprende un ambulatorio gestito dal Cuamm». L’impatto con la realtà locale è stato molto forte, dice subito la dottoressa. «Qui ci sono pochi medici e praticamente nessuno specialista. La sanità è tutta a pagamento, i dottori impostano le terapie ma poi il paziente deve procurarsi tutto.

Mi è capitato di vedere persone ricoverate che non ricevono cure perché nessun parente ha le risorse per andare a comprare i farmaci. Mancano anche i macchinari diagnostici, i pochi disponibili devono servire un’intera regione». Le patologie più frequenti sono «malaria, febbre tifoide e altre problematiche infettive», ma tante persone vengono ricoverate anche per «complicanze acute di malattie come diabete e ipertensione, mai diagnosticate in precedenza».

Le situazioni di emergenza sono all’ordine del giorno, e non mancano certo le occasioni per imparare. Silvia lo sottolinea, e specifica le sfide più impegnative: «Non è immediato passare da un ospedale italiano a questo contesto, bisogna resettare tante abitudini. La cosa più bella e interessante per me è cercare di esserci in punta di piedi e trovare la giusta via di mezzo tra il nostro modo di lavorare e ciò che si fa qui». Perché ha deciso di partire? «Ho sempre sentito molto vicino il tema del diritto alla salute, mi colpisce pensare che ci siano delle differenze così marcate tra Paesi e mi piace l’idea di rendermi utile in questo senso».

Alessandra: ora so gestire le emergenze ostetriche

Alessandra Abbamondi - Collaboratori

Una motivazione simile ha spinto a partire anche Alessandra Abbamondi, 29 anni di Napoli. Si trova in Tanzania, nella regione di Iringa, e in particolare all’ospedale di Tosamaganga, dove il Cuamm sostiene alcuni progetti. «Ogni mattina il mio lavoro inizia 7.45 con un incontro tra colleghi e un aggiornamento su eventuali emergenze o decessi avvenuti nella notte – racconta la dottoressa –. Mi occupo soprattutto di attività ostetrica e ginecologica e lavoro con un team di medici locali che spesso non sono specializzati perché qui la scuola di specializzazione costa molto e non ci sono borse di studio, come invece accade in Italia. Collaborare è proprio nello spirito del Cuamm e mi piace molto, credo sia il modo migliore per dare prospettiva e autonomia a un progetto».

L’ospedale è il punto di riferimento di tutta la regione e di una serie di centri di salute periferici, che spediscono a Tosamaganga i casi più gravi. Anche per Abbamondi le sfide non mancano. «La cosa più difficile è abituarmi a una diversa gestione del paziente, perché qui gli strumenti a disposizione sono meno rispetto a quelli cui sono abituata – dice la dottoressa –. C’è anche un senso diverso di urgenza, i tempi sono più distesi, capita che pazienti in emergenza debbano aspettare ore prima di essere visitati. Sono aspetti che mi mettono alla prova, sia come medico che come persona».

Una delle competenze principali che Abbamondi si porterà a casa sarà «la gestione delle emergenze ostetriche». E anche la scia di tanti incontri umani: «Vedo una dignità estrema tra le persone, anche nella malattia e nella fatica. È come se ci fosse un senso diverso della vita». La parola che sia Silvia che Alessandra nominano è «equilibrio». «Ce ne vuole molto per lavorare in questi contesti – concludono le dottoresse – e forse una delle sfide maggiori è proprio trovare il giusto bilanciamento tra il dare e il ricevere, tra l’agire e il lasciare spazio ad altri, tra le risorse disponibili e quelle che servirebbero ma non ci sono. E provare a fare comunque il meglio possibile».

Gianluca: lì s'impara tanto. Ci tornerò​

Passare un periodo in Uganda, tornare in Italia, terminare il percorso di studi e poi rimettersi in viaggio per lo stesso ospedale ugandese, dall’altra parte del mondo. È l’esperienza di Gianluca Bortignon, medico e anestesista, classe 1988. Ha messo piede la prima volta in Uganda nel 2021 per passare lì gli ultimi sei mesi del percorso di specializzazione in Anestesia e Rianimazione, dopo la laurea in Medicina.

«Studiavo all’Università di Verona e ho insistito molto per partire – racconta –. Ho dovuto chiedere un permesso, e una volta ottenuto mi sono candidato con Emergency», l’organizzazione fondata da Gino Strada negli anni Novanta e impegnata in ambito umanitario. «Ho sempre sentito di voler fare un’esperienza di questo tipo». E così parte. La direzione è Entebbe, città ugandese a pochi chilometri dalle sponde del Lago Vittoria. Lì sorge un ospedale di Emergency che tutti chiamano “La casa dei bambini” anche se il suo vero nome è “Centro di chirurgia pediatrica”. È moderno, con grandi vetrate e pannelli fotovoltaici sul tetto.

La struttura accoglie bambini e bambine che devono subire interventi chirurgici legati per la maggior parte a problemi addominali o urologici e malformazioni ano-genitali. «La prima volta che ci sono entrato ho pensato di essere in un’astronave perché tutto è all’avanguardia, la specializzazione è altissima, le cure offerte hanno un livello molto elevato – spiega Gianluca –. Tra le corsie ho visto però casi di malattie estreme, come non mi era mai capitato prima. Mi ha colpito in particolare la solitudine di tanti bambini, soprattutto i più deboli, perché spesso mentre loro sono ricoverati i genitori devono allontanarsi per lavorare e sostenere il resto della famiglia». Gianluca andava tutti i giorni al lavoro a piedi, un modo per conoscere meglio il contesto in cui si trovava. «Era la mia mezz’ora di silenzio prima di giornate molto piene e in cui il lavoro era totalizzante. Passavo attraverso villaggi costruiti con fango e lamiere».

Quali sono le cose più importanti che ha imparato? «Ho potuto formarmi in una materia molto ostica e di nicchia, l’anestesia pediatrica. Sono sempre stato affiancato a professionisti con più esperienza di me e questo mi ha dato molto: erano soprattutto medici in aspettativa dal lavoro o pensionati. Tutti lavoravano come una squadra, non ho mai percepito competizione, anzi, avevo l’impressione che ci sentissimo tutti parte di una stessa missione. È una cosa che nei nostri ospedali italiani a volte manca». Nel periodo finale dell’esperienza è scattato un allarme ebola. «Siamo entrati in lockdown – spiega il medico –. Abbiamo continuato a lavorare ma con l’attivazione di una serie di misure di sicurezza».

Per Gianluca l’esperienza in Uganda non è stata una parentesi. A metà novembre ripartirà per Entebbe e vivrà lì altri sei mesi, questa volta come medico specialista, e non da solo: «Partirò con la mia ragazza, anche lei dottoressa e anestesista. Vogliamo dedicare alcuni mesi a una missione. Ed Emergency ci ha proposto di ripartire insieme».

Silvia: con i bimbi del Benin, ispirata dalle suore

Silvia Gamba - Collaboratori

C’è chi riesce a stare via per mesi ma c’è anche chi dedica a un’esperienza umanitaria il tempo delle ferie. Silvia Gamba è partita per il Benin nell’estate tra il primo e il secondo anno della sua specialistica in Pediatria, in mano una valigia carica di materiale sanitario. Destinazione, un Centro per il contrasto alla malnutrizione gestito dalle suore Camilliane e sostenuto dalla onlus italiana InterMed, riferimento di Silvia per tutta la permanenza.

«Sono stata a Ziviè, un luogo in cui nascono e muoiono moltissimi bambini e dove tanti decessi sono legati alla mancanza di cibo» spiega la dottoressa, che oggi ha ventisette anni, frequenta il terzo anno della scuola di specializzazione e lavora in un ospedale milanese. Subito racconta il lato umano dell’esperienza: «Sono partita con altri tre giovani e ci ha colpito moltissimo la convivenza con le suore, ragazze della nostra età nate in famiglie numerosissime che grazie alla scelta religiosa hanno potuto studiare e diventare infermiere. Gestiscono tutto loro, impostano le cure, fanno visite in posti sperduti e coltivano la spirulina, un’alga molto proteica che trasformano in pastiglie da dare alle mamme e ai bambini».

Le risorse sono pochissime, sottolinea la dottoressa, tanto che a volte i farmaci bastano per un certo numero di bambini, poi non ci sono più. «Umanamente è difficile da accettare. Ci sono capitate situazioni in cui sapevamo che i bambini di fronte a noi sarebbero morti perché i genitori non avevano le risorse per portarli in ospedali più grandi. In Benin la sanità è a pagamento, tutto è a carico del paziente».

Durante la permanenza, Silvia ha somministrato decine di vaccinazioni, un gesto «di speranza» perché fa pensare al futuro. «Sono arrivata pensando di fare tantissime cose, e invece ho agito molto meno di quanto avrei immaginato – riflette ancora –. Ho scoperto che ci vuole delicatezza per entrare in una realtà così diversa dalla nostra».

Per ultimo, racconta un episodio che più di altri le è rimasto addosso: «Un giorno le suore ci hanno portati al mare, su una spiaggia deserta e bellissima. A un certo punto hanno messo i piedi nell’acqua e si sono messe a cantare e pregare con grande trasporto. Noi ci siamo guardati, con profonda emozione, e siamo scoppiati a piangere: è stato un momento davvero commovente perché abbiamo visto tutta la loro forza. Vivono nella povertà estrema eppure non si arrendono. Sento di avere imparato moltissimo da loro, come medico e come persona».

Libro. Il giro dell'Africa in trenta lettere

Trenta lettere fanno il giro del mondo e arrivano in Italia da Etiopia, Uganda, Mozambico, Sierra Leone, Tanzania. Sono raccolte nel libro Africa andata e ritorno, curato da Medici con l’Africa Cuamm e appena pubblicato da Laterza. Sono scritte dai giovani partiti con il Cuamm negli ultimi anni e raccolgono pensieri, riflessioni e domande su luoghi segnati da diseguaglianze e grandi potenzialità, che diventano spazi di crescita.

C’è la lettera di Alberto, chirurgo di Milano che racconta l’esperienza in Sud Sudan al suo migliore amico usando «gli occhi del cuore». C’è Lisa, pediatra di Venezia, che scrive alla figlia le storie di tante mamme e bambini incontrati in Mozambico. C’è Riccardo che manda una lettera ai suoi amici italiani per spiegare le difficoltà quotidiane in Etiopia...

A introdurre i loro scritti è don Dante Carraro, direttore del Cuamm. «Questi giovani sono espressione dell’Italia più bella – scrive –, portano novità, scombinano i piani, ci indicano la direzione del futuro con sguardo vivo e affamato. Lo stesso fanno i giovani africani con cui si incontrano e con cui costruiscono uno scambio continuo di sentimenti, pensieri ed esperienze».

Africa e ritorno in 30 lettere - Collaboratori