Vita

Fine vita. Foglietto o notaio? Rebus del modulo per il biotestamento

Marcello Palmieri giovedì 21 dicembre 2017

Ora che il biotestamento è legge è diritto di ogni cittadino capire il meccanismo che lo governa. Per poter esprimere nel modo più consapevole ed efficace le proprie scelte. Ma anche per tutelarsi da chi potrebbe distorcere le scelte a proprio vantaggio e a danno dell’altro. Tra gli aspetti più critici della norma c’è il comma 6 dell’articolo 3, secondo cui le Disposizioni anticipate di trattamento (Dat) possono «essere redatte» non solo «per atto pubblico o scrittura privata autenticata» ma anche «per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza ». In gioco ci sono sia l’autenticità delle Dat sia la loro effettiva piena rispondenza alla volontà di chi le ha redatte. Se infatti le prime due modalità di redazione – attraverso il controllo operato dal notaio – garantiscono in capo al disponente una certa tranquillità, la terza sembra non aver argini contro i più vari abusi.

Per «scrittura privata» – sottinteso «semplice» – s’intende ogni documento provvisto di firma. Dunque è attribuita validità al testo scritto di pugno dal 'testatore' (come fosse un testamento olografo) così come al questionario a crocette compilato e firmato. Perfettamente vincolante per i medici tuttavia può essere anche un foglio prestampato semplicemente sottoscritto dall’interessato. Unico vincolo, per le Dat comunicate in forma semplice, l’obbligo che siano consegnate in Comune o presso le strutture sanitarie che hanno attivato l’apposito registro. Pensiamo alle persone anziane, magari ancora in grado d’intendere e di volere ma con una soglia d’attenzione e di determinazione più o meno compromessa dall’età: quali garanzie esistono affinché le loro volontà non vengano falsate per un qualsiasi motivo (ad esempio, l’interesse) da familiari o altre persone vicine? Tanto più che, molto spesso, la sopravvivenza di un anziano costituisce una rilevante fonte di spesa mentre la sua morte aprirebbe al conseguimento di un’eredità. A questo proposito, la legge sulle successioni subordina la validità del testamento alla sua integrale olografia o alla 'garanzia' di veridicità prestata dal notaio, quella sulle Dat no. Con il paradossale risultato che le cose del testatore sono più tutelate della sua vita. Un’ulteriore problematicità di questa norma emerge sottolineando come, a fronte di un’assoluta libertà di forme per la redazione delle Dat, siano posti seri vincoli per colui che le voglia revocare in condizioni di urgenza ed emergenza: in questi casi serve «una dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico», ma a patto che sia raccolta «con l’assistenza di due testimoni ». Morale: quando si è in salute, per rilasciare una «disposizione» tutte o quasi le modalità sono possibili. Quando invece ci si trova proprio nella condizione in cui essa sarebbe chiamata a operare la sua revoca diviene alquanto difficoltosa. C’è poi un altro problema: l’articolo 3 della norma, al comma 1, dispone che le Dat possono essere espresse «dopo aver acquisito informazioni mediche» sulla conseguenza delle scelte.

Tuttavia, tra le formalità concrete per la loro redazione, l’assolvimento di quest’obbligo non figura quale condizione di validità. Anzi, non figura del tutto, restando così una previsione totalmente disattendibile. Alla luce di tutto ciò, il comportamento che più sembra tutelare il cittadino è di non sottoscrivere Dat mentre si trova in salute, mentre divenuto paziente potrà optare per quella pianificazione condivisa delle cure che la Costituzione – prima ancora della legge sul biotestamento – valorizza come diritto inalienabile del paziente. Qualora tuttavia decida di redigere le Dat la forma più tutelante è sicuramente quella che prevede la previa consulenza del medico e il successivo intervento del notaio. Resta il problema della loro revoca, come sopra spiegato, ma almeno si avrebbe qualche garanzia in più circa l’appropriatezza delle Dat e la loro reale rispondenza alla volontà dell’interessato. Certo è che questi professionisti richiedono (giustamente) adeguati compensi, innescando così il dubbio che simili esborsi – connessi alla tutela di beni primari come la vita e la libertà – possano risultare inammissibli costituzionalmente prima ancora che moralmente.

È a questo punto che una domanda s’impone su tutte: fino a ora, assente il complicato meccanismo introdotto una settimana fa dalla legge, su quali garanzie potevano contare i pazienti giunti al termine della loro vita? Innanzitutto l’articolo 32 della Costituzione ha sempre garantito la possibilità di rifiutare le cure. E l’articolo 38 del Codice di deontologia medica già prevedeva la possibilità di predisporre Dat: ma erano «dichiarazioni», non disposizioni, e dovevano dimostrare di essere scaturite dal confronto con un medico, con il sanitario cui era chiesto semplicemente di tenerne conto mediandole però secondo la propria scienza e coscienza, nel supremo (vero) interesse del paziente.