Vita

Fecondazione assistita. Eterologa, la Consulta: ora legislatore sia saggio

Francesco Ognibene martedì 10 giugno 2014
Fecondazione eterologa, anno zero? Fatto cadere con la sua sentenza del 9 aprile il divieto che vigeva dal 2004 dopo l’approvazione della legge 40, martedì sera col deposito delle corpose motivazioni di quel verdetto la Corte Costituzionale ha deciso di aprire una nuova, nebulosa e inquietante pagina della procreazione assistita nel nostro Paese. Ma ha lasciato aperta la porta a un nuovo intervento del legislatore ricordando (punto 11) che è compito del Parlamento «"introdurre apposite disposizioni" (sentenza n.278 del 2013), allo scopo di eliminare le eventuali lacune che non possono essere colmate mediante gli ordinari strumenti interpretativi dai giudici e anche dalla pubblica amministrazione, qualora ciò sia ammissibile». Che il vuoto normativo si produca o meno, ragiona la Corte, non è rilevante per il suo giudizio: la Consulta infatti sin dal 1958 «ha affermato che il proprio potere "di dichiarare l’illegittimità costituzionale delle leggi non può trovare ostacolo nella carenza legislativa» che «possa derivarne», mentre «spetta alla saggezza del legislatore di elminarla nel modo più sollecito e opportuno». Le motivazioni della sentenza sono costruite su un ragionamento esclusivamente giuridico, che non considera le pesanti incognite etiche, sociali e antropologiche che si aprono ora, ammettendo che sì, «le questioni toccano temi eticamente sensibili» sui quali occorre trovare «un ragionevole punto di equilibrio delle contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana», ma che è dovere della Corte di verificare se il «bilanciamento di quelle esigenze e dei valori ai quali si ispirano» possa essere «irragionevole». La Corte, aprendo all’eterologa, è però consapevole che non può trattarsi di un "liberi tutti": il ricorso a questa discussa tecnica infatti «deve ritenersi consentito solo qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità e se sia stato accertato il carattere assoluto delle stesse». Dunque l’eterologa è accessibile solo a partire dai requisiti dettati per la fecondazione omologa (con seme e ovulo della coppia) dalla legge 40, che lungi dall’essere abbattuta detta ancora alcuni precisi limiti, ricordati dalla Corte che ha voluto esplicitamente mettere al riparo le altre disposizioni oggetto di critica da parte dei detrattori della norma: sono infatti «applicabili direttamente (e non in via d’interpretazione estensiva)» alla fecondazione «di tipo eterologo» le «norme di divieto e sanzione non censurate (le quali conservano validità ed efficacia), preordinate a garantire l’osservanza delle disposizioni in materia di requisiti soggettivi, modalità di espressione del consenso e documentazione medica necessaria ai fini della diagnosi della patologia e della praticabilità della tecnica». Restano anche i divieti in materia di «commercializzazione di gameti ed embrioni e la surrogazione di maternità»: dunque, niente pagamento per chi dona seme e ovuli (deve essere una prestazione offerta in forma gratuita) e divieto di utero in affitto. Due i cardini del ragionamento sul quale è costruita la sentenza. Anzitutto la scelta «di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi». Detto questo, «la determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera più intima e intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile». Seconda chiave della sentenza è l’idea che la provetta eterologa è «una specie del genus», una parte del tutto: non può esserci una regolamentazione diversa tra omologa ed eterologa, pur non negando la Corte le differenze tra le due pratiche. Infatti è «certo che l’impossibilità di formare una famiglia con figli» attraverso la provetta di tipo eterologo può «incidere negativamente, in misura anche rilevante, sulla salute della coppia». La Corte invece è del tutto sfuggente su un punto decisivo dell’eterologa: il «rischio psicologico correlato a una genitorialità non naturale» e la «violazione del diritto a conoscere la propria identità genetica» per i nati da eterologa. Questi infatti per i giudici «hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti dalla coppia», con buona pace – tra gli altri – dei problemi possibili di matrimonio tra figli dello stesso donatore. Quanto a quest’ultima figura si rimanda a un «limite ragionevolmente ridotto» di largizioni di seme o di ovuli, una genericità che stride col tono generale delle motivazioni. Ultimo punto nodale della sentenza è l’estensione ai figli dell’eterologa del ragionamento già recentemente espresso dalla Corte in relazione alla madre che, alla nascita, non riconosce il figlio: in quel caso infatti è stata rimossa «l’irreversibilità del segreto», introducendo il «diritto dei genitori adottivi all’accesso alle informazioni concernenti l’identità dei genitori biologici dell’adottato». In altre parole, nessun anonimato è possibile per i donatori di gameti, alla cui identità i genitori e il figlio dell’eterologa avranno il diritto di accedere. Un ulteriore punto di domanda su una sentenza che, come dice Eugenia Roccella, non risponde «a tutti i dubbi che l'abolizione del divieto pone, primo tra tutti quello sulle garanzie per le coppie che vi accederanno».