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Documento. Editing genetico, la scienza lascia fare?

Assuntina Morresi venerdì 17 febbraio 2017

(Ansa)

È stato presentato martedì sera negli Stati Uniti Human genome editing: Science, Ethics and Governance (ed. The National Academies Press; Avvenire ne ha proposto ieri una prima sintesi) il rapporto del gruppo di lavoro che si è costituito nel dicembre 2015, nel corso di un meeting internazionale a Washington, per discutere le implicazioni della nuova tecnica di manipolazione genetica che consente di modificare il Dna di esseri viventi in modo molto più preciso, semplice ed economico di quanto sia stato possibile finora.

La particolare metodologia di cui si parla ha la sigla impronunciabile Crispr/Cas9, ed è entrata nel dibattito pubblico planetario quando, nel marzo del 2015, sulle riviste scientifiche Science e Nature diversi scienziati del settore proposero una moratoria per la sua applicazione sugli esseri umani, limitatamente alla manipolazione del Dna nei gameti e negli embrioni da cui far nascere persone con il genoma modificato ed ereditabile dalle generazioni future.

Fra le tante applicazioni della tecnica questa è stata una delle più discusse, per gli evidenti problemi che pone: è lecito far nascere esseri umani geneticamente modificati? È possibile tracciare un confine fra interventi a finalità terapeutiche e di potenziamento? Possiamo garantire che le trasformazioni genetiche indotte siano effettivamente quelle volute, senza altri effetti? Quando si può passare dal gene editing in laboratorio a quello sulle persone, sia nascituri che adulti, con sufficiente garanzia per la loro salute?
Comitati etici, società scientifiche, istituzioni nazionali e sovranazionali, gruppi di ricerca e singoli studiosi, in tutto il mondo: tantissime le prese di posizione a riguardo in questi mesi. Il report uscito martedì era particolarmente atteso per il prestigio dei proponenti.

Diciamo subito che si tratta di un documento molto corposo (243 pagine) che vuole essere la prima linea guida internazionale per il gene editing sugli esseri umani, tralasciando quindi tutti gli altri ambiti di applicazione, come ambiente, agricoltura, animali. È un testo elaborato da inglesi e americani, ai quali principalmente si rivolge: i riferimenti di governance sono soprattutto alle regole della Food and Drug Administration, l’ente Usa di farmacovigilanza, e riecheggiano le argomentazioni inglesi che hanno dato il via libera nel Regno Unito agli "embrioni con tre genitori", una tecnica con cui vengono formati e portati a nascita embrioni con il Dna di tre persone. È una procedura totalmente diversa dal gene editing, molto meno sofisticata, che però pone problematiche assai simili.
Nel parere si parla di gene editing in laboratorio, in applicazioni cliniche, per modifiche ereditabili e non, ma si affrontano anche il potenziamento umano, aspetti di governance e di coinvolgimento dell’opinione pubblica.

Riguardo la possibilità di intervenire con il gene editing su gameti ed embrioni umani da portare a nascita non si parla più di moratoria ma, al contrario, si sottolinea come «cautela non significhi necessariamente divieto». Dalla lettura del testo traspare la polarizzazione del dibattito fra chi spinge per trasferire in utero gli embrioni sottoposti a gene editing (o formati da gameti così modificati) e chi invece vorrebbe mettere uno stop netto.

Per esplicita ammissione degli stessi autori, infatti, alcune espressioni utilizzate nella formulazione dei criteri da rispettare per poter passare alle applicazioni cliniche sono «necessariamente vaghe» perché assumono un valore diverso a seconda dei differenti orientamenti culturali e valoriali. E per questo le medesime raccomandazioni possono essere lette come un cauto via libera o come un divieto di fatto all’applicazione clinica.

In effetti, per poter portare a nascita embrioni umani manipolati con il gene editing, nel report vengono indicati i seguenti criteri stringenti, senza i quali nessun trial dovrebbe essere autorizzato: assenza di ragionevoli alternative; limitazione alla prevenzione di malattia o condizione grave; limitazione dell’applicazione ai soli geni associati in modo scientificamente valido all’insorgenza o alla predisposizione a tale malattia o condizione; limitazione alla conversione di tali geni a versioni prevalenti nella popolazione e associate a una normale salute e con poca o nessuna evidenza di effetti avversi; disponibilità di dati affidabili preclinici o clinici che indichino i potenziali benefici e rischi; un monitoraggio rigoroso di salute e sicurezza dei partecipanti alla ricerca per l’intera durata dello studio; follow-up a lungo termine multigenerazionale nel rispetto dell’autonomia personale; massima trasparenza compatibile con la privacy dei pazienti; rivalutazione periodica di benefici e rischi sanitari e sociali anche con un confronto aperto con tutte le componenti della cittadinanza; monitoraggio affidabile per prevenire l’estensione a usi differenti dalla prevenzione di malattie o condizioni gravose.

Fra le mille domande che nascono – come si fa ad avere dati clinici affidabili prima di effettuare trial clinici – e la constatazione che per il follow-up di generazioni c’è bisogno, letteralmente, di secoli, durante i quali si verificano i risultati delle manipolazioni genetiche, che però non si potranno correggere se dannose – una osservazione emerge al di là di ogni interpretazione: al momento non ci sono le condizioni per effettuare questi esperimenti in sicurezza, e non sarà il gene editing sugli embrioni in vitro a poter dare queste risposte (a tale proposito, secondo gli autori la prospettiva più promettente potrebbe essere la ricerca sulle cellule precursori dei gameti, e non quella sui gameti veri e propri e sugli embrioni). Forse il prossimo summit internazionale, annunciato per il 2017 in Cina, potrà indicare altre strade.