Vita

EUTANASIA. Diritti dell’uomo, il ribaltone di Strasburgo

Ilaria Nava giovedì 16 maggio 2013
La Corte europea per i diritti dell’uomo torna a occuparsi di bioetica. Il caso riguarda un’anziana donna zurighese, senza patologie di rilievo, che ha accusato le autorità nazionali di averla privata di una dose letale di pentobarbital di sodio, e quindi del diritto di decidere con quali mezzi mettere fine alla sua vita. La Corte di Strasburgo le ha dato ragione, invitando la Svizzera a chiarire le proprie regole interne, costituite non da una normativa ma da linee guida dell’Accademia di medicina, che permettono il suicidio solo in presenza di patologie avanzate. Una sentenza che, secondo Grégor Puppinck, presidente dell’European Centre for Law and Justice, intervenuto nel giudizio di fronte alla Corte «ha completato la costruzione di un diritto al suicidio assistito, vale a dire all’eutanasia, sulla base del diritto al rispetto della vita privata garantito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo». È questo l’articolo, infatti, che secondo i giudici giustificherebbe la richiesta di morte, visto che, come afferma la sentenza «nell’era della crescente sofisticazione medica combinata con l’allungamento della vita, molte persone hanno il desiderio di non essere costrette a vivere nella vecchiaia o in stati di decadimento fisico o mentale che contraddicono radicalmente la loro identità personale».Questa decisione, appellabile entro tre mesi, segue le precedenti Pretty contro Regno Unito del 2002, Haas contro Svizzera del 2011 e Koch contro Germania dell’anno scorso. «La Corte – prosegue Puppinck – ha in sostanza condannato il fatto che l’esercizio effettivo del diritto al suicidio assistito sia condizionata da norme mediche, e che gli standard medici escludano in linea di principio questa pratica per le persone in buona salute. In questo caso, la richiesta non riguarda, infatti, un caso medico di una persona malata alla fine della vita, bensì una persona anziana e sana, ma stanca di vivere. È su questo punto che la maggioranza della Sezione ha censurato il diritto svizzero: ha stimato che non appartiene alle norme deontologiche, ma alla legge, di fissare le condizioni di prescrizione del veleno». Un’interpretazione che però manifesta una distorsione del concetto di diritto umano: «Visto che il suicidio ha acquistato la qualità di libertà e di diritto individuale, una norma deontologica non può fare ostacolo al suo esercizio per una persona non malata: solo la legge può inquadrare il suo esercizio, anche se si realizza per mezzo dell’arte medica. Questa sentenza conferma la tendenza che fa dell’autonomia individuale il valore principale della Convenzione, che ha la precedenza sul rispetto per la vita. In tal modo, quattro giudici hanno immerso pienamente la Convenzione nel soggettivismo. Al contrario, gli altri tre giudici hanno stimato che il richiedente, essendo in buona salute, non può avvalersi del diritto svizzero al suicidio assistito, il cui inquadramento giuridico è sufficientemente preciso. Così, concretamente, oltre al fatto che rinforza il diritto al suicidio assistito, questa impostazione sottrae al campo medico la decisione di accordare il veleno, integrandolo in quello delle libertà pubbliche. La Corte ha proceduto già così recentemente, facendo passare la pratica dell’aborto in Polonia e in Irlanda da un regime medico a un regime di libertà individuale».La Corte appare di nuovo molto divisa sui temi etici, sacrificando l’unità della Corte e procedendo a votazioni di maggioranza con postille di pareri contrari: «Quale può essere l’autorità di un atto adottato da quattro voci contro tre su un argomento tanto controverso, e che va contro il consenso europeo e il testo stesso della Convenzione che all’articolo 2 fa obbligo per gli Stati di rispettare e di proteggere la vita di ogni persone, senza eccezione, e pone il principio secondo cui la morte non può essere inflitta a chiunque intenzionalmente?».«È importante sottolineare che la Corte lascia un margine di discrezionalità per lo Stato – spiega Alberto Gambino, ordinario di diritto privato all’Università europea di Roma – e la legge nazionale rappresenta i valori condivisi di una nazione. La Corte di Strasburgo nel decidere tiene conto di questo aspetto. Ad esempio, in Italia la Cedu avrebbe dovuto esprimersi diversamente perché questa sentenza sarebbe contraria ai nostri valori costituzionali. In altre concezioni però, emerge un’altra visione, dove la vita appartiene alla sfera privata e i relativi diritti possono essere esercitati anche in senso distruttivo del bene stesso».