Vita

PUNTI FERMI. «Obbligare» a vivere? Le Dat salvano l'umano

Michele Aramini giovedì 7 aprile 2011
La delicata materia delle dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) è discussa non solo in Parlamento ma è all’attenzione dei media e fa parte anche dei discorsi della vita quotidiana. È proprio nell’ambito dei discorsi amichevoli che, tra tante altre, emerge la domanda se nella posizione cattolica sulle Dat non ci sia un eccesso di protezione nei confronti della vita delle persone che si trovano nella fase terminale dell’esistenza. Alcuni obiettano di fronte all’idea che i cattolici sembrano sostenere un certo accanimento terapeutico, quando ormai c’è un accordo generale sulla necessità di evitarlo. A complemento e rafforzamento della domanda, spesso si citano le parole «lasciatemi andare alla casa del Padre» di Giovanni Paolo II. È giusto chiarire questi aspetti della massima importanza. Lo facciamo innanzitutto in riferimento alle parole del Papa, prossimo beato. È noto che la lunga malattia e le condizioni di Giovanni Paolo II avevano fatto approntare nel suo appartamento una serie di presidi medici degni di un ospedale avanzato, per la ovvia ragione di non dover ricoverare il Papa in ospedale ad ogni crisi. In questo contesto, negli ultimi giorni di vita, Giovanni Paolo II ebbe tutte le cure necessarie senza che né lui né i medici sospendessero qualche trattamento necessario. Come i medici curanti hanno più volte testimoniato, le sue famose parole avevano un preciso senso spirituale e non medico. Quanto al secondo aspetto, cioè il presunto dovere per un cattolico di sostenere forme di vero accanimento terapeutico, la dottrina della Chiesa è chiarissima: basta leggere il n. 2278 del Catechismo: «L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza o la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente».Come si può vedere con facilità la posizione cattolica è lontanissima da un insensato accanimento terapeutico. Al contrario, proprio perché è una dottrina piena di umanità e attenta alla realtà complessiva della persona che sta per morire, sa che viene il momento in cui il decorso della malattia diventa inarrestabile e diviene inutile affliggere il paziente con cure vane. Occorre però precisare che la sospensione delle terapie mediche quando esse si rivelino inutili o dannose non significa dismissione della cura per il paziente in condizione terminale o in stato vegetativo persistente. Tutti sappiamo che non sempre si può guarire, ma sempre si può curare. La dimenticanza di questa distinzione è fonte di una grande confusione e tocca spesso la questione del cibo e dell’acqua. L’idratazione e l’alimentazione in quei pazienti che non sono in grado di assumerle autonomamente non sono forme di accanimento terapeutico ma soddisfacimento – questo sì obbligatorio – delle ordinarie e umanissime necessità della persona.