Vita

Intervista. Casavola: eutanasia, l'aberrazione dell'egoismo

Andrea Galli giovedì 27 marzo 2014
«Bioetica. Una rivoluzione post moderna» è il titolo del recentissimo libro scritto per Salerno Editrice-Roma da Francesco Paolo Casavola, giurista, presidente emerito della Corte costituzionale e dal 2006 presidente del Comitato nazionale di bioetica. Una rivoluzione che «nasce alla confluenza di due flussi, quello umanistico e quello scientifico», come scrive l’autore tracciando una panoramica dei principali fronti aperti da questo cambio di paradigma. Presidente Casavola, uno dei punti su cui si sofferma è il fenomeno dell’espulsione degli anziani dalle famiglie. Una situazione in cui il confine tra autodeterminazione e vulnerabilità rispetto alle pressioni eutanasiche diventa molto labile. Non solo labile, ma malefico. Da un lato abbiamo la crescita di fasce di popolazione anziana, dall’altro una dispersione delle comunità elementari, ovvero delle famiglie, per cui i vecchi vengono abbandonati in ospizi che sono appunto una maschera del processo con cui vengono espulsi dalla famiglia. Inoltre la vecchiaia sempre più prolungata diventa dolorosa dal punto di vista non soltanto puramente biologico ma anche della vita sociale, con gli anziani che finiscono per sentire uno stato di abbandono convincendosi che sia esaurita la validità della loro vita. E gli anziani che non riescono a legarsi con le generazioni successive sono già condannati a morire. Può esserci una scelta eutanasica anche dal punto di vista collettivo, della società, che dice: facciamo a meno di loro, liberiamoli dal peso dell’esistenza. Ci sono fattori oggettivi che spingono verso soluzioni non di fraternità umana ma di calcolo egoistico, come il computare i costi sociali della lunga vita. E gli egoismi collettivi sono più insidiosi di quelli individuali, perché più nascosti. Lei definisce il supposto diritto a nascere sani o a non nascere come un’aberrazione. Eppure è un "diritto" sempre più rivendicato...L’aberrazione è innanzitutto nel fatto che questo diritto non è rivendicato dall’interessato ma è una rivendicazione dei già vivi e dei già sani che non vogliono sobbarcarsi la convivenza e le relazione con i figli che nasceranno. Da questa aberrazione può nascere una psicosi collettiva, con la ricerca di rimedi eutanasici non per se stessi ma per gli altri. L’eutanasia in senso stretto è il momento in cui l’essere umano finisce per auto-espellersi dal legame sociale, è la solitudine che assedia e poi finisce per avere ragione della persona. Ma quando i vivi e sani vogliono conservare la serenità della propria esistenza pensando di eliminare chi la potrebbe incrinare, non siamo più di fronte a un problema di autodeterminazione.Il concetto di dignità umana è al centro della sua riflessione e del suo libro. Non pensa che fenomeni come l’utero in affitto e la fecondazione eterologa siano di per sé una negazione della dignità umana del nascituro?Se dobbiamo riconoscere nell’appartenenza al genere umano una persona, ebbene, questa persona deve avere almeno la possibilità di auto-identificarsi biologicamente, socialmente e affettivamente. Se invece usiamo "congegni" e "passaggi meccanici" come l’utero in affitto lediamo o non riconosciamo la dignità della persona. Le legislazioni più apparentemente permissive in realtà tengono conto solo di calcoli di opportunità e di egoismo da parte di chi fa scelte improprie, ovvero di chi – usando quel tanto di ironia che le metafore portano con sé – è come se andasse al supermercato a comprare un pupazzo.Il tema della fecondazione o della maternità eterologia si incrocia con quello del gender, di coppie dello stesso sesso che vogliono un figlio. Cosa ne pensa?Anche questa è una delle tante incognite del tempo postmoderno, che tende a sostituire esigenze di affetto con esigenze di acquisto. L’affetto è dedizione, l’acquisto è egoismo. Andare oltre le diversità di genere per avere una prole rispecchia una visione di acquisto non di dedizione. Qui è in gioco anche una questione di coeducazione sociale. Bisogna tenere presente che la vera condivisione nasce da una cultura, qualcosa di spontaneo e non imposto, frutto di un lavoro consapevole, critico, faticoso di coeducazione. Tutta la storia delle società umane è una storia della cultura, del colloquio, del dialogo, del dibattito, del conflitto che viene superato nelle forme più umane possibili, raggiungendo convinzioni che diventano come stelle polari di una comunità trasmesse di generazione in generazione. Tutte le altre scorciatoie sono in realtà imposizioni. Quindi bisogna guardarsi bene da quelle che possono essere mode minoritarie ed elitarie, che non si confrontano con l’universalità delle esperienze umane.