Vita

Legge 40. Quant'è breve il passo tra eterologa e utero in affitto

Marcello Palmieri giovedì 5 giugno 2014
Dopo la dichiarazione di incostituzionalità della legge 40 nella parte in cui vieta la fecondazione eterologa, il 9 aprile, i giuristi italiani continuano a interrogarsi sulle conseguenze che la pronuncia può generare nel lungo periodo. Tra queste, un’eventuale apertura all’utero in affitto. Francesco Saverio Marini, ordinario di Diritto pubblico all’Università di Tor Vergata di Roma, almeno in un caso specifico non la ritiene così improbabile: quello «in cui la maternità surrogata sia in concreto l’unico strumento possibile per consentire alla coppia di pervenire alla procreazione utilizzando almeno in parte materiale genetico proprio». In attesa delle motivazioni della recente sentenza, si può seguire il ragionamento della Corte Costituzionale sull’eterologa e applicarlo anche ad altri problemi simili. Secondo Marini, la Corte da un lato ha ritenuto scorretto l’attuale «bilanciamento tra diritto alla genitorialità della coppia e diritto del nascituro ad avere una famiglia», dall’altro ha visto una «disparità di trattamento fra soggetti con problemi procreativi». Spiega il costituzionalista: la normativa censurata consentiva l’accesso «alle tecniche di procreazione medicalmente assistita solo per coppie in possesso di gameti fecondabili, non anche per quelle in cui almeno uno dei componenti possiede gameti inidonei a produrre l’embrione». Ed ecco spuntare il collegamento con l’utero in affitto: moto spesso il patrimonio genetico del bimbo ottenuto con maternità surrogata appartiene alla coppia solo per il 50%, perché "madre" o "padre" – non essendo in grado di fornire materiale procreativo – si fanno sostituire da altri donatori. Proprio come si potrà fare in Italia attraverso la fecondazione eterologa, con l’unica impossibilità (al momento, almeno) di impiantare l’ovulo fecondato in un ventre altrui. Marini sottolinea però che il vigente divieto di maternità surrogata vede «l’allineamento abbastanza omogeneo di molti altri Paesi europei», e da questo ritiene che difficilmente potranno eroderlo sia la Consulta sia la Corte europea dei diritti dell’uomo. Dal canto suo, Luciano Eusebi pone interrogativi forse meno tecnici ma certamente utili per inquadrare il problema nel suo complesso. Si chiede l’ordinario di Diritto penale alla Cattolica di Milano: «Quando si rendesse praticabile l’utero artificiale, sarebbe "umano" escludere il ruolo della corporeità femminile sostituendolo con una macchina? La gestazione è solo un elemento accidentale del progetto generativo? È un caso che la generazione sia stata posta dalla natura attraverso l’apporto genetico di due individui di sesso diverso?». Interrogativi scientifici cui negli ultimi mesi hanno sostanzialmente risposto i giudici, sia quelli che hanno ritenuto incostituzionale il divieto di fecondazione eterologa sia quanti si sono pronunciati per la liceità della maternità surrogata praticata all’estero, aggirando così il divieto italiano. Ma toccava a loro farlo? Il problema si allarga ulteriormente. «Sono fortemente contraria alla "bio-giurisprudenza" – scandisce Laura Palazzani, ordinario di Filosofia del diritto alla Lumsa di Roma e vicepresidente del Comitato nazionale per la bioetica –: rischia di provocare ingiustizie». Dunque? «Bisogna intervenire con una legislazione puntuale, creare regole generali e astratte che valgano per tutti». In concreto: «Dobbiamo evitare che i magistrati si trovino nelle condizioni di argomentare a ruota libera». I rischi, divenuti realtà, sono sotto gli occhi di tutti: come le pronunce difformi per casi simili, spesso discutibili, talvolta addirittura arbitrarie. «Frequentemente – dice ancora la docente – i giudici non hanno le competenze scientifiche per decidere, e allora si fanno guidare dalla loro personale idea della faccenda». Ma questo non è quanto ci insegnano millenni di civiltà giuridica. «Il diritto esiste per difendere i più deboli – puntualizza la filosofa –: in questo caso, sono i bimbi che nascono». Ecco allora una serie di domande che riguardano in prima istanza la fecondazione eterologa, e subito dopo quello che la studiosa definisce «legame del pendio scivoloso» con l’utero in affitto. Tra le tante: «Potrà esserci un limite al numero di donazioni di gameti? In America si sa di una persona che ha fornito il suo corredo genetico 286 volte», e non è difficile immaginare l’impatto psicologico della cosa su quei bambini che sanno di avere 285 fratellastri genetici. Ma non solo: «I piccoli  avranno o no il diritto di conoscere le loro origini genetiche?». E poi: «Le eventuali patologie del donatore trasmissibili in via ereditaria saranno tempestivamente segnalate nella sua biobanca?». Insomma: la fecondazione eterologa va regolata. Facendo attenzione che non apra le porte alla maternità surrogata.