Vita

Vita. «Autismo, uscire dall’isolamento»

Graziella Melina giovedì 27 novembre 2014

Inadeguatezza, inefficacia e frustrazione, come ha sottolineato papa Francesco il 22 novembre alla XXIX Conferenza internazionale promossa dal Pontificio Consiglio per la pastorale della Salute, sono le sensazioni che possono sorgere nelle famiglie che accudiscono una persona affetta da autismo. Per rompere il loro isolamento, oltre all’accoglienza, all’incontro e alla solidarietà, è fondamentale, ha rimarcato il Pontefice, una «concreta opera di sostegno». «L’isolamento sostanziale di cui soffrono le famiglie di persone con autismo – conferma infatti Francesco Barale, direttore del dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Pavia e presidente della fondazione Genitori per l’autismo – è un vero e proprio deserto che si fa sempre più angoscioso man mano che la persona autistica cresce». Ecco perché è di primaria importanza «costruire percorsi coerenti, prospettive sensate ed adeguate che accompagnino le persone autistiche e le famiglie per tutto il corso dell’esistenza». Un impegno certamente non facile: diagnosi e cura lasciano ancora tanti punti interrogativi, però, assicura lo psichiatra, lo studio dell’autismo «è uno dei campi in più rapida evoluzione delle neuroscienze contemporanee. Sul piano biologico si stanno chiarendo sempre di più gli assetti  atipici di funzionamento del sistema nervoso che riguardano problemi di connettività tra varie regioni del cervello, di organizzazione sinaptica, di sviluppo irregolare dei rapporti tra varie aree, di integrazione dell’esperienza sensoriale. Anche la genetica dell’autismo si è molto ampliata. Lo sviluppo delle conoscenze ha consentito di mettere finalmente da parte la vecchia idea che l’origine dell’autismo sia "psicologica"». Il primo ostacolo da superare è innanzitutto la corretta diagnosi. «L’individuazione precoce è molto importante – sottolinea Barale -. Anzi, il  tentativo di individuare indicatori precoci che possano far pensare ad un “rischio autismo” anche prima che il quadro clinico chiaramente si manifesti, costituisce un vivacissimo terreno di ricerca». Attualmente però non esiste «un “marker” biologico che consenta di fare diagnosi – continua -. Nei primi due anni di vita è poi oggettivamente difficile individuare con relativa certezza, all’interno delle grandi variabilità individuali, se quel determinato sviluppo potrà essere autistico; infine, purtroppo, c’è una diffusa scarsità di conoscenze anche su ciò che già allo stato attuale sarebbe possibile fare». Nel caso in cui però la diagnosi è certa, le possibilità di cura e accompagnamento può portare a risultati incoraggianti. «Ciò che attualmente si può fare – spiega infatti lo psichiatra - è sostanzialmente mettere in atto, il più precocemente possibile, interventi di sostegno abilitativo. Negli anni scorsi, diversi gruppi di ricerca hanno ripetutamente messo in evidenza che una percentuale significativa (tra il 15 e il 30%) di bambini piccoli che hanno ricevuto una diagnosi precoce o hanno presentato significative caratteristiche di sviluppo simil-autistico “escono dalla diagnosi”, cioè non possono più essere considerati autistici, all’età di 5 anni. I fattori correlati a queste evoluzioni positive non sono ancora affatto chiari. Comunque sia, questo periodo di plasticità è importante». Ma è indispensabile il coinvolgimento e la collaborazione dei genitori. «Diverse esperienze indicano che, ove si è in grado di sostenere le famiglie, coinvolgerle e farle collaborare in un progetto coerente di lungo termine, insieme a tutti gli attori sociali del mondo del bambino autistico via via che cresce in una atmosfera generale di sostegno, i risultati possono essere migliori». Sono fondamentali dunque percorsi di assistenza mirati. «In condizioni, contesti e con interventi adatti e non generici – prosegue lo psichiatra - queste persone possono essere felici, acquisire competenze, mostrare capacità inaspettate, riuscire ad esprimere anche la loro particolarissima umanità. Questo sia nell’età evolutiva che, ancor di più, nell’età adulta. Certo, bisogna rispettare anche la loro “neurodiversità”; non bisogna pretendere che facciano cose per loro inarrivabili, porgli ideologicamente degli obiettivi adattativi impossibili. Bisogna costruire contesti a loro adatti e  condizioni concrete perché possano esprimere e valorizzare la loro particolare umanità». Un esempio positivo è quello messo in campo dalla Cascina Rossago, «una fattoria sociale sulle colline dell’Oltrepo pavese – racconta Barale - nelle cui 3 case vivono 24 persone adulte con grave autismo, quotidianamente impegnate nelle attività agricole, di allevamento, artigianali, a partire dalle quali si è costruito un fitto tessuto di rapporti col territorio». Un miglioramento delle condizioni di vita e un inserimento sociale sono dunque allo stesso tempo necessari e possibili. «Va sfatato il primo pregiudizio che cioè che tutti gli autistici sono gravissimi e che determinano condizioni di vita terribili. Non è così – precisa Magda Di Renzo, psicoterapeuta dell’età evolutiva, responsabile del servizio di psicoterapia dell’Istituto di ortofonologia di Roma -. I disturbi dello spettro autistico hanno infatti una diversa gradualità. È importantissimo fare delle differenze, questo apre anche a delle speranze. Ci può essere infatti una situazione di autismo lieve che rimane tale. Il problema è che questi bambini hanno uno sviluppo atipico e quindi i genitori devono essere aiutati a capire come sostenerli, avendo presente che il bambino autistico da subito nella vita non attiva i normali scambi di comunicazione.  E quindi il genitore – continua Di Renzo - deve essere aiutato a imparare come entrare in comunicazione con quei bambini. La grande scommessa del futuro sarà proprio il sostegno agli adulti».