Vita

La storia. 20 anni di eutanasia. E l’Olanda non sa piangere il poeta Jan

Maria Cristina Giongo venerdì 27 maggio 2022

Il poeta e musicista olandese Jan Rot

«Cari lettori, fra poco lascerò questo mondo. Vi scrivo aspettando il medico, in arrivo per porre fine alla mia vita. Addio!». Sono le ultime parole che Jan Rot, 64 anni, musicista e poeta olandese, conosciuto e amato nel suo Paese, ha scritto il 22 aprile nella rubrica che teneva su «Mezzo», rivista settimanale allegata al quotidiano nazionale AD.
Un anno fa aveva dato la notizia di essere stato colpito da un cancro all’intestino, con metastasi, parlando spesso in seguito della sua malattia, sino al giorno della sua morte per eutanasia, scelta «per abbandonare una vita di sofferenza che giudicava insopportabile» (uno dei primi requisiti necessari, secondo la legge in vigore dal 1° aprile 2002): un’eutanasia descritta in ogni particolare, a cominciare dalla giornata precedente, trascorsa insieme alla moglie e ai loro 4 figli, l’ultimo di 10 anni, preparandosi a quel terribile distacco. «Ho avuto una bella esistenza. Mi spiace che finisca. Ho pianto insieme ai nostri ragazzi, ma ora tutto è regolato; chiudo il mio computer, è una splendida mattina di sole, godo ancora un momento la mia meravigliosa famiglia, poi vi devo salutare definitivamente».

Un drammatico annuncio nel mezzo (proprio come il titolo dell’allegato) di un giornale dove si trovano interviste, letteratura, musica e anche ricette e consigli per viaggi. Quasi che se l’eutanasia, nel corso dei 20 anni dalla sua approvazione, sia diventata un fatto naturale, a cui ci si è assuefatti. In Olanda i casi di eutanasia registrati sono passati dai 2.000 nel 2003 a 6.585 nel 2017. Le recenti statistiche del marzo 2022 ne hanno riportati 7.666 (nel 2021), di cui "solo" 7 non sono stati attuati a norma di legge, secondo l’Rte, la Commissione chiamata a controllare, dopo il decesso del paziente, se la legge è stata rispettata.

La rubrica dell’artista scomparso è stata rilevata dalla moglie Daan, scrittrice e fotografa (40 anni), che sabato scorso ha raccontato il percorso del marito per ottenere l’eutanasia. Più volte rimandata, perché desiderava tenerlo il più possibile accanto a sé. Una volta fissata la data fatidica, «trovavo sempre una scusa per convincerlo a spostarla». Di nuovo ha voluto ricordare la fase finale della vita di Jan, fra musica ascoltata e suonata, lacrime e angoscia per l’imminente perdita del proprio amore, programmata, accettata. Quindi l’ingresso del medico, con l’eloquente immagine di «una borsa che di solito si usa per fare la spesa» piena di fiale, e la richiesta di confermare la sua decisione. Lei che gli sussurra «stupido» quando lui annuisce, rendendosi conto che non vuole sia quella la parola che deve sentire prima del passo finale. Così aggiunge «va bene, amore». Dopo di che il medico infila l’ago nella vena e le dice: «Ecco, Jan se ne sta andando...».
Come è possibile abituarsi a tutto questo? Se già la morte per cause naturali è tanto difficile da sopportare, questa – che è procurata – sembra esserlo ancora di più.