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“Voyager”, Giacobbo ormai collaudato

Andrea Fagioli mercoledì 12 luglio 2017
«Chi ha fatto trenta può fare trentuno», dice il proverbio. Ne è convinto anche Roberto Giacobbo, giunto alla trentunesima stagione televisiva. Il noto divulgatore è infatti tornato da lunedì in prima serata su Rai 2 con la nuova edizione di Voyager - Ai confini della conoscenza. Ci resterà per altre sette settimane. Il format è collaudato. Si ripete di anno in anno con successo. Sembra anche tra i giovani e sui social. Partenza questa volta con le grandi opere dell'Impero romano: dalla Villa Adriana di Tivoli all'Arena di Verona, dall'Anfiteatro di Nimes in Francia al Pantheon di Roma. Ad aiutare il conduttore nelle ricostruzioni intervengono la computer grafica e gli attori in costume (non sempre all'altezza, va detto), anche se a prendersi la scena rimane lui, Giacobbo, che a lungo andare rischia di diventare prigioniero di se stesso e del suo sensazionalismo a tutti i costi: i primi a…; gli unici ad avere le chiavi… Insomma, gigioneggia un po' troppo. Ed è un peccato, perché gran parte del programma è interessante. Basti solo pensare all'attraversamento, nella puntata di lunedì, del Pont du Gard, nella Francia del Sud, che certamente non tutti sanno che è quello riprodotto nelle banconote da cinque euro e che non si tratta di un ponte vero e proprio, ma di un grandioso acquedotto, un'opera eccezionale, con tre serie di arcate, enormi dimensioni in lunghezza e soprattutto in altezza: quasi cinquanta metri. E l'acqua scorreva proprio sulla sommità, quella attraversata per l'occasione dalle telecamere di Voyager e dal suo conduttore, che non disdegna mai, nonostante i suoi due metri di altezza, di infilarsi in cunicoli a volte impossibili. C'è da dire, infine, dell'ultima parte del programma, completamente slegata dal resto, anche nella realizzazione: qui Giacobbo lascia più spazio alle immagini e al racconto della voce fuori campo. Lui ribadisce che «quello che non si può dire, noi l'abbiamo detto». Nel caso specifico l'ipotesi della «sindrome del gemello scomparso», che riguarderebbe un numero elevato di persone tra cui in modo particolare i mancini. Ovviamente è tutto da dimostrare, compresi i cosiddetti «gemelli inglobati». È quindi evidente che questa parte, con tanto di immagini un po' forti sui gemelli siamesi, non c'entrava nulla con le grandi opere architettoniche dell'Impero romano.