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Vedere o non vedere: gli occhiali dostoevskiani di Nigro

Cesare Cavalleri mercoledì 17 settembre 2014
Salvatore Silvano Nigro insegna Letteratura italiana alla Iulm di Milano, e ha tenuto corsi alla Sorbona di Parigi, alla New York University, alla Yale University e in altre prestigiose istituzioni internazionali. Proprio alla Yale University il professore, con assistenti e studenti, si divertiva a frequentare anche simpatici ritrovi goliardici nei quali ci si intratteneva a inventare storie di diavoli zoppi e di altri personaggi con occhiali, telescopi, corazze di armadilli. Questi racconti, mescolati a serissime ricerche accademiche, hanno dato luogo a Il portinaio del diavolo. Occhiali e altre inquietudini (Bompiani, pp.160, euro 16), singolare ricerca che dischiude gli orizzonti dell'erudizione minore.Tetti scoperchiati e facciate che crollano mettono a nudo il privato che si svolgeva in camere e mansarde. Come accadde a Ugo Gattegna, protagonista del romanzo La casa si muove, di Guglielmo Petroni (1949-1950) che si trova allo scoperto per il crollo della facciata del modesto albergo bombardato in cui viveva, improvvisamente esposto allo sguardo dei passanti e dei pompieri, proprio lui, così riservato.Occhiali e cannocchiali consentono di spiare la vita altrui: chi non ricorda il film di Hitchcock, La finestra sul cortile (1954)? Ma «vedere non è capire. È solo rendimento narrativo. L'equivalenza tra visione e comprensione non può essere immediata e inincrinabile. La fiducia totale nella vista è una superstizione. I binocoli si sporgono su romanzi che, a rileggerli, possono non collimare con la realtà. Per risultare alla fine, però, più veri del vero. Come accade spesso alle finzioni letterarie».E chi mai poteva redigere un catalogo degli occhiali? Georges Perec, naturalmente, in un capitolo di Pensare/Classificare (1976-1982): «Ci sono lenti e occhialini ad arco fisso o pieghevoli, a snodo e a molla. Da impugnare: a perno, fassamani, monocoli; o da posare sul naso: lorgnette, pince-nez. Da lavoro. E da teatro: gli occhiali gelosi che servono per guardare con la coda dell'occhio, e sorvegliare, la persona amata. Da vista e da diporto: per vedere meglio, e per essere solo indossati in quanto accessori di moda. Eccetera».Ma vederci meglio è sempre un bene? Certamente non lo è per la piccola Eugenia, descritta da Anna Maria Ortese in Il mare non bagna Napoli (1953) e due volte citata da Nigro. La ragazza, poverissima e «quasi cecata» finalmente riceve in dono un paio di occhiali, e così si spaventa nel vedere l'orrenda realtà del suo lercio cortile, dei miserabili balconi, dei nauseabondi ammassi di rifiuti. «Meglio la cecità che un mondo così: brutto assai. Senza occhiali, dietro gli oscuranti delle palpebre, l'immaginarietà è rassicurante».Un intero capitolo è riservato a Il diavolo zoppo di Luis Vélez de Guevara (1641), che «mette in parodia il picaresco, nella commedia degli equivoci che coinvolge il diavolo nella bisca di una confraternita sivigliana della mendicità». Il libro è illustrato con curiosissime immagini di mascheroni occhialuti, santi con pince-nez, diavoli con le lenti. Occhiali anche per i cavalli da parata nelle giostre barocche. Più inquietante di tutti è il giovane diavolo con occhiali che assiste un Sant'Antonio abate in un quadro di Rutilio Manetti (1630), una copia del quale ha ispirato Todo modo di Leonardo Sciascia. E il pince-nez che, nel romanzo di Sciascia, penzola dalla barella che trasporta il cadavere di don Gaetano, richiama una scena analoga della Corazzata Potëmkin di Ejzenstejn (1925), con gli occhiali che l'ufficiale medico della nave aveva inforcato per «non vedere».Insomma, si parte dagli occhiali e ci si ritrova in mezzo a ragionamenti dostoevskiani sulle ricadute etiche dell'assenza o della presenza di Dio.