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«Tu che sei in Comune... » in realtà puoi fare ben poco

Roberto Beretta martedì 7 febbraio 2017
Fuori dal Comune, ogni assessore – a qualunque specialità faccia capo – viene frequentemente abbordato da amici, conoscenti e perfetti sconosciuti: «Tu (lei) che sei (è) in Comune...». Segue elenco molto vario di magagne da sistemare: dalle buche nelle strade alle fermate dell'autobus che sarebbe meglio spostare, dai rifiuti abbandonati agli stalli per la sosta da ridipingere.
È bello perché la gente crede ancora che in municipio "comandi" il sindaco, e in subordine la sua giunta. E chi sennò? Li abbiamo votati apposta! Dunque basta enunciare una legittima richiesta o avanzare una giusta osservazione a qualcuno di coloro "che sono in Comune", tanto più se di essi ci si fida, per essere praticamente certi che sarà presto fatto.
Beh, confesso che anch'io lo credevo, all'inizio del mandato, e ci ho messo un pochetto a rendermi conto che il voglio-posso-comando immaginato dalla gente non esiste proprio. La parte politica dell'amministrazione dà infatti l'indirizzo dell'azione; ma quanto ad agire sul serio, quello è compito degli uffici e dei loro dirigenti.
Ed è pure corretto che sia così. Immaginate infatti un politico-padrone (ne esistono, ahimé) che batta i pugni sulla scrivania ed "esiga" un certo risultato, promesso a chissà chi, a ragione oppure a torto, senza badare alle procedure o alle regole, magari minacciando trasferimenti per chi non è disposto a obbedirgli e promozioni a quanti invece si mostrano accondiscendenti. O anche soltanto un sindaco decisionista che con le sue indebite intrusioni destabilizzi l'equilibrio di un organismo, il quale invece deve durare ben dopo la sua uscita di scena...
Segretario comunale e dirigenti sono in questo senso i garanti del funzionamento e della legalità del sistema pubblico, avendo non solo l'ovvio dovere di disobbedire agli ordini dati contra legem ma essendo pure tenuti a organizzare al meglio il lavoro degli uffici cui sono preposti. Un compito che a volte esige pure il coraggio di opporsi alle ingiuste pretese dei rappresentanti eletti.
D'altra parte, però, ognun vede il lato opposto della medaglia: anche il sindaco benintenzionato e l'assessore diligente, ambedue osservanti delle corrette competenze, possono facilmente divenire ostaggi dei loro stessi uffici municipali. A differenza dell'ordinamento privato, infatti, nella pubblica amministrazione (almeno quella "di base") il "capo" possiede ben pochi strumenti di rivalsa verso la sua dirigenza.
Se quest'ultima cioè, capovolgendo lo scenario paradossale sopra descritto, si oppone a una richiesta politica o ne rallenta a bella posta l'adempimento – nelle pieghe delle innumerevoli leggi italiane un pretesto plausibile si trova sempre – il sindaco deve sudare non poco per ottenere quanto è nei suoi indirizzi. Tanto che non di rado si ha l'impressione che in municipio governino in realtà più i "tecnici" che i "politici"...
In questo modo l'equilibrio dei poteri (di indirizzo e di esecuzione), se risulta in certo modo garantista contro sbandamenti in un senso o nell'altro, di sicuro è responsabile di molti rallentamenti e inefficienze: guarda caso, le stesse che il sistema privato rimprovera generalmente al pubblico. Con in più un effetto secondario non indifferente: mentre i dirigenti in ogni caso hanno poco o nulla da perdere a dire "no", tanto meno in immagine e credibilità, gli amministratori comunali pro tempore devono invece rispondere personalmente agli amici, conoscenti o perfetti sconosciuti del "Tu che sei in Comune...". E vai a fargli capire che non sono loro a comandare in municipio! Alla fine, è sempre il sindaco a metterci la faccia.
r.beretta@avvenire.it