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Sumo (ma non solo): lo spazio del sacro

Mauro Berruto mercoledì 29 maggio 2019
Questo articolo non ha altra pretesa se non quella di voler segnalare quanto, in questo momento storico, sia frequente e tollerata la pratica di voler de-sacralizzare tutto, de-predare alcune situazioni della loro essenza più intima, de-contestualizzarne altre per poter mettere le nostre mani su ciò che non ci appartiene. Tento questo esercizio partendo da un fatto curioso, almeno ai miei occhi, accaduto domenica scorsa a Tokyo e lo faccio mettendo insieme due mondi che, apparentemente, non dovrebbero neppure potersi sfiorare.
Il luogo, per così dire, del misfatto è un anello di sabbia all'interno dello stadio Ryogoku Kokugikan e l'occasione è quella dell'ultima giornata di un grande torneo annuale di Sumo, lotta rituale e sport nazionale giapponese. Che cosa ne sappiamo noi occidentali del Sumo? Almeno nella stragrande maggioranza dei casi, quasi nulla. Ci ricordiamo, forse, di immagini che qualche volta abbiamo visto, di giganteschi lottatori vestiti solo di un perizoma che, facendo scontrare le loro masse corporee, cercano di trascinarsi fuori da un ring, rappresentato da un cerchio a terra. Una doverosa forma di rispetto di qualche cosa che non conosciamo (ma che, come nel caso in questione, porta 11.000 persone in uno stadio) ci dovrebbe far intuire che in quello spettacolo c'è qualcosa di sacro. E in effetti è così. Proprio quell'anello di sabbia rappresenta uno spazio sacro, in cui valgono regole che sono applicate da secoli.

Domenica allo Ryogoku Kakugikan era seduto in tribuna Donald Trump, il presidente degli Stati Uniti. In effetti, a voler essere precisi, Trump qualche precedente con il mondo della lotta lo ha avuto, in particolare con il wrestling. Circolano ancora sulla rete delle terrificanti immagini in cui, prima di diventare presidente di una delle più importanti democrazie planetarie, Donald Trump diventò protagonista di una di quelle messe in scena rituali nel mondo del wrestling, prima malmenando un suo pari genere (un milionario il cui pupillo stava battendo il suo) e poi salendo a centro ring e in prima persona, di fronte a una folla in delirio, passare un rasoio a mo' di sfregio sulla chioma del suo avversario/collega. È tutto vero, credetemi (o, meglio, di vero non c'era niente, se non il fatto che la scena che ho descritto sia ancora lì, visibile a tutti).
Trump, domenica scorsa, era ospite del primo ministro giapponese Abe Shinzo a quel torneo così sacro e importante e come ogni buon ospite non si è presentato a mani vuote. Ha portato una coppa gigantesca, enorme, eccessiva. Una coppa in scala 1:1 rispetto a un lottatore di Sumo, si potrebbe dire. Dopo aver assistito a una serie di rituali di cui, si presume, avrà capito poco e nulla, ha ottenuto di entrare nel sacro cerchio. Può piacere o meno, ma per capire come la pensano i giapponesi, dovete sapere che tempo fa c'era stata una grande polemica perché una dottoressa aveva infranto il rituale portando soccorso a un lottatore gravemente infortunato e le donne, dentro a quel cerchio, non sono ammesse. Oltre alle donne, lì, non sono ammesse neppure le scarpe, ma nessun problema per Donald: dotato di un paio di pantofole orribilmente modellate a forma di scarpa, eccolo lì, sulla sabbia sacra, a premiare il lottatore Asanoyama (un po' incredulo) con la sua President's Cup e a spiegare alla folla come quella fosse una fantastica giornata per lui. Quelle pantofole finte, quel trofeo finto, quel discorso finto, quella finta voglia di essere percepito come vero, mi hanno fatto pensare: fino a dove si possono spingere, per tentare di legittimare il loro potere, uomini che hanno bisogno di costruire, in qualche modo, una propria (finta) immagine pubblica? Non succederà, se andiamo avanti di questo passo, che presto qualcuno che rinnega con i fatti della sua politica i princìpi fondanti del Vangelo, possa addirittura baciare in diretta televisiva un crocifisso per celebrare una propria vittoria elettorale? Come dite? È già successo?