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Sulle strade del Giro profumate d'Italia

Alberto Caprotti giovedì 16 maggio 2019
Aveva gli occhi lucidi un signore anziano, immortalato dalla tv qualche giorno fa aggrappato al gomito di una curva. Emozionato sotto due baffi antichi aspettava la tappa, sull'asfalto ancora senza ruote del colle di San Luca. I suoi erano occhi liquidi, pieni di strada e di ricordi, di quelli che fanno intuire rare discese e più frequenti salite. Quanto orgoglio, quanta storia e quanto coraggio si è potuto intuire in un attimo. E quanta bellezza, specchio di una vita e di un'Italia contadina, fiera e resistente che ancora aspetta un futuro migliore o un futuro comunque.
Pochi metri più avanti una scritta, disarmante e apparentemente banale come sono tutte le cose più belle, che compare spesso sulla strada quando passa la corsa: “Viva il Giro”. La troveremo ancora nei prossimi giorni, pitturata di bianco sulla coscienza asfaltata dello sport che non vuole arrendersi. È l'inno ufficiale della rifondazione pedalistica, partito senza minoranze, carico di elettori convinti che al fruscio delle ruote che girano non vogliono rinunciare mai. Ma anche di astenuti sospettosi, che sanno di non potersi fidare del tutto. Perché il Giro d'Italia è sempre un enorme bivio: deve regalare emozioni pulite per cancellare la lebbra dei suoi scandali antichi e recenti.
Ma la gente dietro al paracarro non ci pensa troppo: ha occhi solo per gli operai della pedivella che in tre settimane si sciroppano 3.578 chilometri con la sola (si spera) forza delle gambe, sotto il sole a picco e la pioggia, sfiorando la neve e forando l'afa, arrancando su salite che fondono i motori e picchiando in discese da far chiudere gli occhi. Fatica inimmaginabile, totale. «Vado così forte in montagna solo per abbreviare la mia agonia...», diceva Marco Pantani. Uno dei più grandi, per sempre e a prescindere.
Ma anche per noi atleti da divano e sportivi del telecomando, la corsa è una speranza di freschezza da gustare sulle curve, insieme all'atlante visivo di un Paese da riscoprire. Fucecchio, Ceresole Reale, Commezzadura, Croce d'Aune: arriva e parte dove forse non andremmo mai se non ci portasse il Giro, meravigliosa agenzia di viaggi gratis per tutti. L'Italia in questi giorni si apparecchia per lasciarlo passare: ha trovato gli spazi per la carovana nei suoi centri storici, ha messo le seggiole di legno fuori dalla porta, ha aspettato sul ciglio della strada, applaudendo e sbracciandosi. Provincia, campagna, frazioni sconosciute che si inorgogliscono per essersi fatte toccare. Fazzoletti al vento e campi di papaveri, folla davanti ai bar, con un bicchiere in mano e la voglia di riempirsi gli occhi di ruote e volate. Altro che disaffezione: solo il ciclismo regala ancora quadri così. Che riconciliano con questa nazione che non conosciamo mai abbastanza. Come la gente che la abita, meno rassegnata e apatica di quello che si creda. Capace di emozionarsi ancora: sintomo di vitalità, rivoluzione di sentimenti.
Per questo al Giro non si può non voler bene, per questo non potranno mai cancellarlo come un pezzo d'antiquariato. Anche per lui purtroppo l'Italia finisce appena sotto la metà della nazione: non c'è Sud quest'anno: ragioni di soldi, di tempo e di logistica. Come nella vita, fa un giro largo ma non lungo, nel senso che non arriva in profondità. È un Giro che non ha tempo, come noi. Ma che piace lo stesso alla gente. Quella semplice, che si piazza sul marciapiede e batte le mani quando arriva il gruppo. O che scala i tornanti dalla sera prima riuscendo a non sentirsi stupida per aver atteso per ore il soffio di una sfilata che dura tre secondi. A meno che non sei sullo Stelvio, è sempre la faccenda di un amen. Hai il tempo di dire: arrivano, e già li vedi di schiena. È il mistero infinito di una passione senza logica, la sua forza imbattibile.
A noi resta quella di un signore anziano seduto sulla curva della sua emozione. Aspettava il Giro d'Italia, piangeva di ricordi forse, e noi lo faremmo volentieri con lui, se solo avessimo il suo stesso coraggio.