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Sul web ci sono abbastanza preti da attirare le pubblicità mirate

Guido Mocellin mercoledì 18 aprile 2018
È evidente che la quota di amici preti che conto su Facebook, e la quota di interazioni che ho con loro, è sufficientemente alta da far credere ai robot che governano il social network che sono un prete. O almeno che sono talmente vicino ai preti da influenzare le loro decisioni. Non che sia una novità. Prima degli algoritmi, sono stati gli umani a trarre la stessa deduzione, per il fatto che lavoravo per una rivista di attualità e documentazione ecclesiale, “Il Regno”, edita all'epoca da una congregazione religiosa, i padri dehoniani. Così, le lettere che mi arrivavano intestate “al reverendo padre” non si contavano. Per non dire del missionario che capitò in redazione per conoscere quella che riteneva una suora-redattrice, e la trovò visibilmente incinta, oltre che sposata.
Qui però c'è un salto di qualità. Ritenendomi un prete (o un influenza-preti), Facebook mi propone, “sponsorizzata”, un'occasione commerciale imperdibile: calice e pisside in offerta speciale a 200 euro invece che 290, con l'omaggio di un set d'altare in puro lino. In quasi tremila reagiscono con “mi piace”, “wow” e persino “love” (177). In una ventina commentano “mi interessa”: il segnale che l'azienda in questione suggerisce, in alternativa al contatto privato, per avviare la compravendita. Niente di male, ci mancherebbe. Non c'è da sorprendersi né che la vita pastorale, e segnatamente quella liturgica, abbia un risvolto commerciale, né che anche per esso, come per i libri, le scarpe, i viaggi e mille altre cose, il web offra un'alternativa seducente al negozio tradizionale. Ma certo è una conferma inoppugnabile che i preti stanno su Internet. Poi fa un po' impressione il linguaggio, così simile a quello al quale siamo abituati per l'offerta di beni profani. Bastino gli incisi: «fino esaurimento scorte», «non contiene nikel», «spediamo in 24/48 ore» e «rigorosamente made in Italy». A proposito di quest'ultimo: da dove verranno invece i vasi sacri “tarocchi”? Non certo dalla Cina...