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Streaming, il 50% degli artisti incassa solo pochi euro

Gigio Rancilio venerdì 2 ottobre 2020

Ci avevamo creduto davvero, una ventina di anni fa, al fatto che la Rete e il digitale avrebbero portato più democrazia nel mondo della musica. Soprattutto ci avevano creduto tanti artisti. Avevano imparato o stavano imparando a usare computer e programmi per realizzare a prezzi contenuti canzoni e album. E finalmente, grazie alla Rete, davanti a loro non c'erano più i filtri della discografia che sceglieva su quali talenti investire, ma solo il pubblico. Quel pubblico che avrebbe salvato ogni artista, dandogli finalmente il giusto spazio.
Ci abbiamo creduto per un po'. Poi, nel 2008 è arrivata Spotify (e prima e dopo di lei tante altre piattaforme di streaming) e nel giro di 12 anni ha stravolto il mondo della musica. Non c'è più niente da scaricare o da comprare, ma un enorme patrimonio di «musica liquida» da ascoltare quando e quanto si vuole. Chi vuole paga un abbonamento e ascolta tutto, chi non paga e si iscrive gratis si subisce la pubblicità e qualche limitazione. Una meraviglia, o almeno così sembrava. Oggi che di compact disc se ne vendono sempre meno e il mercato dei vinili, anche se in crescita, fa numeri piccoli, non resta che lo streaming. Come sottolinea Enzo Mazza di Fimi, la Federazione delle industrie musicali, ormai «in Italia vale l'80 per cento del mercato».
Tutto bene, quindi? Dipende. Gli utenti di Spotify crescono: secondo l'ultimo rapporto di febbraio, «viene utilizzato ogni mese da ben 271 milioni di persone, di cui 124 milioni sono utenti paganti». Nell'ultimo trimestre del 2019 ha incassato 1,86 miliardi di euro, ma i costi per aumentare gli abbonati sono stati ingenti e le perdite annue sono cresciute. Il pubblico però è felice. Come ha raccontato il ceo Daniel Ek, «ogni mese su Spotify arrivano una media di 40mila canzoni». Quello che invece non arrivano sono i guadagni per gli artisti. O meglio: i soldi arrivano, ma solo a pochi. Secondo un articolo di Musically, il guadagno medio di un artista, ogni volta che noi ascoltiamo una sua canzone in streaming, è di 0,00318 dollari. La percentuale varia. Nel senso che più sei importante e più guadagni. Per capirci: se qualunque artista ricevesse lo stesso compenso medio (0,00318 dollari ad ascolto), una come Ariana Grande guadagnerebbe oltre 2 milioni di dollari l'anno, mentre uno come Enrico Ruggeri o il compianto Giorgio Gaber poco più di 5mila euro.
Rispondendo in un'intervista a una domanda sui bassi compensi erogati da Spotify agli artisti, il ceo Ek ha sostenuto «che ci sono sempre più artisti che riescono a vivere dei soli guadagni derivanti dallo streaming». Peccato che, secondo uno studio condotto da Alpha Data e da poco pubblicato sulla rivista americana “Rolling Stone”, «l'1% degli artisti monopolizza il 90% degli ascolti in streaming». Inoltre, «il 90% degli artisti presenti sulle piattaforme (Spotify, Apple Music, Amazon Music, Deezer, Google Play Music eccetera, ndr) viene ascoltato dallo 0,6% dell'audience. Col risultato che «circa la metà dei musicisti non raggiunge la soglia dei 100 ascolti audio». Quindi, aggiungiamo noi, se applicassimo i guadagni medi derivanti da Spotify “riceverebbero” meno di 4 euro l'anno (esattamente: 3,81 euro).
Sarà un caso, ma da qualche mese, Spotify ha introdotto in alcuni Paesi un tasto per permettere ai fan di fare attraverso la piattaforma donazioni agli artisti (molti dei quali sono in difficoltà a causa del lockdown). In questo modo, però, Spotify, invece di aumentare i ricavi agli artisti, sposta l'onere di sostenerli da se stessa ai fan. Non vediamo l'ora di essere smentiti, ma il modello dello streaming per ora premia solo i grandi e chi ha le spalle coperte. Per tutti gli altri artisti la democrazia che il digitale doveva portare anche nella musica non solo è lontana ma è addirittura svanita.