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Sotto gli occhi di Bresson tutto è grazia. Anche lo stile

Alessandro Zaccuri giovedì 15 febbraio 2018
Lo sceneggiatore e regista Paul Schrader lo ha sostenuto con chiarezza definitiva: al cinema più che altrove, non è l'argomento né tanto meno la trama a garantire la qualità spirituale (o, meglio ancora, trascendente) di un'opera, ma lo stile, ossia quella particolare inclinazione dello sguardo che permette al regista di lasciar intuire l'esistenza di un altro piano, più misterioso e vitale rispetto al susseguirsi degli avvenimenti.
Fra i modelli indicati da Schrader figura anche il francese Robert Bresson, cineasta capace di un rigore quasi quaresimale. La sua produzione, del resto, è attraversata per intero dall'interrogativo su Dio e sulla fede, sulle miserie dell'uomo e sulla sua possibilità di trovare la salvezza. Sono i temi che si intrecciano in uno dei suoi capolavori, Il diario di un curato di campagna, realizzato nel 1951 sulla scorta dell'omonimo, indimenticabile romanzo di Georges Bernanos.
Libro alla mano, non si può fare a meno di notare come la sceneggiatura, firmata dallo stesso Bresson, rispetti fin nel dettaglio l'antecedente letterario. Eppure, nonostante questa esibita fedeltà, il Diario cinematografico è a tutti gli effetti un film di Bresson, un racconto originale e ancora oggi straordinariamente efficace nella sua semplicità di struttura. Molto contribuisce la nettezza di un bianco e nero che ricorda l'essenzialità delle incisioni di Dürer, trasferite però nel contesto di una modernità contraddittoria e dolente.
L'azione, com'è noto, si concentra nella cittadina di Ambricourt, nel cuore di una provincia francese dove anche la religione sembra prigioniera di abitudini, ipocrisie e convenienze. Il giovane curato, interpretato da un ascetico Claude Laydu, non ama la polemica ed è privo di seconde intenzioni, ma è proprio la sua fede disarmata a suscitare la diffidenza e addirittura l'ostilità dei parrocchiani. I bonari consigli dell'anziano curato di Torcy, paternamente impersonato da Armand Guibert, non riescono a scalfire un'inflessibilità sorretta da un'umiltà esasperata e, insieme, da un desiderio assoluto di immedesimazione con Cristo.
Gli attacchi più temibili arrivano dal castello in cui vive il conte con la sua famiglia. Tanto l'uomo (l'attore Jean Rivière) è astuto e autoritario, tanto la moglie (Marie-Monique Arkell) è prigioniera del rimpianto per la morte del figlio, al quale sopravvive una sorella, Chantal (Nicole Ladmiral), che con la sua rabbiosa disperazione sembra ripetere e amplificare le inquietudini del curato.
Bresson è abilissimo nel far risaltare questa rete di rapporti mediante inquadrature di geometrica esattezza, dalle quali anche il viso del protagonista risalta in un intreccio di linee non troppo lontano dall'astrazione cubista. Un corpo tormentato che non è soltanto la conseguenza di un rovello interiore, ma il segreto più insondabile, del quale neppure il giovane sacerdote è consapevole. Arrivato in paese per prendersi cura delle malattie dell'anima, è destinato ad accorgersi che lui stesso è divorato da un male incurabile. Solo quando viene pronunciata la diagnosi fatale lo spettatore si rende conto che quella alla quale ha assistito è, fin dal primo istante, una Via Crucis del nostro tempo, scandita in una quotidianità fatta di corse in bicicletta, telefoni ai quali rispondere, treni da cui scendere o salire. Non manca il Cireneo, un compagno di seminario che ha ormai abbandonato il sacerdozio. E c'è anche un evangelista, l'insospettabile curato di Torcy, al quale è dato di raccogliere le ultime parole del piccolo prete, quel famoso «tutto è grazia» nel quale, per il tramite di Bresson, l'atto di fede si confonde con la dichiarazione di poetica. Oppure di stile, se si preferisce.