Rubriche

Smodate esultanze: un calcio allo stile

Mauro Berruto mercoledì 8 marzo 2017
L'argomento delle esultanze fuori luogo nel mondo del calcio è di quelli ciclici e riemerge, ineluttabilmente, di tanto in tanto. L'occasione, questa settimana, ce la offre Dries Mertens, attaccante belga del Napoli, che dopo un bellissimo goal segnato all'Olimpico contro la Roma, ha pensato bene di correre con l'indice sulle labbra come a intimare silenzio (gesto che già di suo è abbastanza sgradevole), fino a mettersi a quattro zampe e mimare il gesto di un cane che fa la pipì contro la bandierina del calcio d'angolo. Dire che lo Stadio Olimpico non abbia apprezzato è un po' riduttivo, anche se poi lui ha cercato di rimediare postando la fotografia della sua cagnetta Juliette che lo ringraziava per la dedica (evidentemente entusiasta pur se, essendo femmina, non particolarmente avvezza al gesto del suo padrone).
Mertens è un grande calciatore che gioca in una grande squadra e avrebbe potuto risparmiarci la replica della stessa stupidaggine di cui già si erano resi protagonisti in passato il nigeriano Finidi, Felipe Melo ai tempi del Galatasaray e il venezuelano Danny con la squadra russa dello Zenit San Pietroburgo. Insomma, neanche l'attenuante dell'originalità!
L'escalation delle esultanze scomposte sembra essersi impossessata dei goleador di tutto il mondo nell'ultimo ventennio. I veri intenditori potranno ricordare, all'inizio degli anni 80 del Novecento, l'esile brasiliano Juary che con la maglia verde dell'Avellino festeggiò 13 goal con la danza della bandierina, fatta di piccoli passetti a ritmo altissimo. Gli anni 90 ci proposero le mitragliate di Batistuta, i trenini del Bari, l'aeroplanino di Montella, le maglie prima portate sul viso (Ravanelli) e poi sfilate e lanciate per aria (ma perché poi? Per dimostrare che quello che c'è sotto e più importante della maglia stessa?). Gli anni recenti ci hanno fatto sospettare di calciatori capaci di passare più tempo a provare esultanze che ad allenarsi: come dimenticare le coreografie della squadra islandese dello Stjarnan? Dalla bicicletta umana al "parto della palla", dal tuffo in piscina alla pesca del salmone. L'evoluzione del festeggiamento smodato è stato il non-festeggiamento: atleti piantati in mezzo al campo come se volessero guardare negli occhi, uno per uno, tutti i tifosi sugli spalti (Eric Cantona, ma anche il nostro Balotelli) oppure con lo sguardo artificialmente mogio per aver segnato a una delle decine di squadre cambiate nel corso della carriera.
Implorando una moratoria a questa inutile rincorsa all'esultanza più inutile, scelgo come mio testimonial il calciatore polacco Kuba Blaszczykowski, centrocampista della Fiorentina nel campionato scorso, quest'anno al Wolfsburg. Kuba ogni volta che segna ripropone un gesto semplice: due dita che indicano il cielo, gli occhi rivolti verso l'alto. Nel 1996, all'età di undici anni, quegli occhi di bambino videro suo padre accoltellare a morte la mamma Anna. Dopo ogni gol Kuba dipinge un gesto misurato, affettuoso che ci ricorda come le grandi imprese personali passino attraverso il superamento di grandi difficoltà o dolori enormi. «So che qualsiasi cosa accadrà, ho già vissuto di peggio», ripete spesso Kuba, dichiarando di essere fortunato a poter fare, nella vita, il mestiere che sognava di fare. Un bell'esempio per tanti suoi coetanei, da appuntarsi e ricordare.