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SlalomUn nuovo farmaco sperimentale? Non sempre ne vale davvero la pena

Salvatore Mazza giovedì 13 dicembre 2018
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Della Sla si parla molto ma se ne sa molto poco. Quasi niente. Sconosciute le cause, nessuna cura, imprevedibile il decorso, ossia la velocità con cui procederà la degenerazione dei tuoi neuroni. «La sua sembra una forma non molto aggressiva», mi aveva detto a giugno del 2017, durante la prima visita di controllo tre mesi dopo la diagnosi, il professor Mario Sabatelli, del Centro Nemo. Però a maggio avevo dovuto iniziare a usare un programma di dettatura per il computer, visto che non riuscivo più a usare bene la tastiera; a giugno, per la prima volta, era stato necessario chiedere l'assistenza speciale per poter prendere l'aereo; a fine luglio non mi era più possibile mangiare da solo... «Pensa se fosse stata una forma aggressiva», mi dicevo. La verità è che mi sembrava di scivolare a velocità folle lungo un toboga ghiacciato, senza alcuna possibilità di rallentare la corsa.
Per questo quando a luglio del 2017 mio cognato mi girò la notizia che l'Agenzia del farmaco aveva approvato un nuovo prodotto contro la Sla, il Radicut, la prima cosa che feci fu di inoltrare immediatamente l'email al Centro Nemo, insieme alla più che prevedibile domanda: quando sarà possibile averlo? Perché quella medicina diventasse effettivamente disponibile sarebbe stato necessario aspettare fino a gennaio. Ossia sei mesi, tutti praticamente andati in burocrazia, che rispetto a una malattia che ti fa durare nell'85% dei casi da tre a quattro anni appena sono un'eternità. Quando finalmente a gennaio parlammo della possibilità di accedere a questa cura io ero ormai sulla sedia a rotelle e senza più autonomia. Dire che ero fortemente demoralizzato è sicuramente dire poco.
Poi mi spiegarono come funzionava la cura. 15 giorni di flebo in day hospital, quindi due settimane di riposo, poi ancora due di day hospital e via così, per sei mesi. Il tutto a fronte di un possibile allungamento della speranza di vita di due-tre mesi; solo "possibile", però, in quanto bisognava vedere se avrei sopportato la cura, i cui effetti collaterali erano potenzialmente devastanti. Ci pensai qualche giorno, e ne parlai con mia moglie: valeva la pena provare oppure no? E poi, insieme, ne parlammo con le figlie. Stessa domanda. E tutti insieme convenimmo che no, il gioco non valeva la candela. Scrissi un'email al Centro Nemo: «Non seguirò questa nuova cura, grazie». Troppo invasiva, fisicamente e psicologicamente, rispetto a un risultato risibile. Avevamo fatto una scelta, e ci sembrava la più giusta.
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